A giudicare dai discorsi di certi politici tedeschi sull’Italia, sulla politica italiana e sul presidente della Bce Mario Draghi – ma anche dalle caricature di Angela Merkel apparse su qualche giornale italiano, o dai commenti sentiti a volte a Montecitorio – si direbbe che tra i nostri due Paesi non corra buon sangue. Sembra persino che non abbiano nulla in comune, e che i loro rapporti siano intrisi di pregiudizi. Se così fosse, sarebbe un vero guaio per l’Unione Europea, dato che Italia e Germania sono tra gli Stati fondatori dell’Ue. suo tempo, il progetto dell’integrazione europea fu salutato quasi con entusiasmo dai popoli di entrambi i Paesi. È acqua passata? Siamo alle soglie di una nuova guerra fredda nel seno stesso dell’Europa?
Sicuramente no. Per spiegarmi meglio vorrei fare un excursus personale. Per noi tedeschi l’Italia è sempre stata il luogo del desiderio e della nostalgia – la «Sehnsucht» – anche se non sono mancati gli stereotipi su un generico Sud, dove la gente non farebbe altro che godersi un sole perenne vivendo spensieratamente alla giornata. Sappiamo bene di essere legati fin dall’antichità da una profonda tradizione culturale – con buona pace della «germanità ». Siamo consapevoli di dovere molto al nostro legame con l’Impero romano. Abbiamo sempre guardato con ammirazione all’Italia delle città-Stato e del Rinascimento, emersa splendidamente dal Medio Evo. Un’ammirazione che neppure il XX secolo ha scalfito.
A Francoforte, quando all’inizio degli anni 1970 facevo parte di un gruppo radicale di sinistra, avevamo rapporti regolari con i compagni di «Lotta continua», che per noi sono stati in qualche modo illuminanti: la scoperta che politica e gioia di vivere, militanza e piacere potevano andare di pari passo! Certo, ci prendevamo in giro a vicenda, anche riesumando i vecchi cliché, a colpi di «mangiapatate » contrapposti a «spaghetti». Ma in verità i compagni italiani esercitavano un grande fascino su di noi, e viceversa. Da loro abbiamo appreso, oltre all’eleganza e lo stile italiani, la capacità di «fare come se il cinque fosse un numero pari». Ed era evidente che al di là dello sfottò, anche loro erano alquanto impressionati da questo Paese del nord dove ogni cosa, dal traffico alle dogane, dalle scuole alle università, funzionava tutto sommato abbastanza bene. Oggi mi rendo conto che queste reciproche percezioni rispecchiavano di fatto una tradizione di antica data.
Se probabilmente sono molti gli aspetti che dividono i nostri due Paesi, Italia e Germania hanno però anche molte cose in comune. Innanzitutto, da sempre hanno una certa difficoltà a definire la propria identità nazionale. Nel secolo scorso entrambi i Paesi sono passati per l’esperienza del totalitarismo e del rifiuto della democrazia liberale. Sia da noi che in Italia, dopo la fine del fascismo e del nazionalsocialismo abbiamo vissuto una fase di modernizzazione con ritmi straordinariamente veloci e costanti. Infine, per più di quarant’anni abbiamo avuto in entrambi i Paesi sistemi politici relativamente stabili, con due partiti dominanti: da un lato i democristiani, dall’altro i socialdemocratici (in Germania – mentre l’Italia ha avuto il Pci, che ha finito per diventare a sua volta socialdemocratico). Questo insieme di caratteristiche comuni – ma se ne potrebbero citare molte altre – rappresenta qualcosa come un vasto serbatoio. La libertà di viaggiare e l’integrazione europea hanno fatto la loro parte, tanto che oggi l’Italia e la Germania, al di là delle differenze che ciascuno si diverte a sottolineare, hanno sviluppato un senso profondo di appartenenza a un’entità comune.
Non saranno i recenti malintesi e le reciproche accuse a cambiare questa realtà. Da troppo tempo la connessione italo -tedesca ha assunto un carattere duraturo. A maggior ragione desta sorpresa la durezza delle espressioni usate da Mario Monti nell’intervista rilasciata a «Spiegel», quando dice ad esempio: «Le tensioni di questi ultimi anni nell’Eurozona evidenziano fin d’ora i tratti di una dissoluzione psicologica dell’Europa». Ebbene, io non ravviso nulla di simile. Certo, sono in molti, in tutti gli Stati dell’Unione, a sentirsi preoccupati, a volte persino allarmati per la situazione dell’Europa e dell’Unione Europea. In quasi tutti i Paesi europei vi sono partiti o esponenti politici populisti – in Italia il Movimento 5 Stelle, in Germania ad esempio il ministro delle finanze bavarese Markus Söder – che stanno cercando di dare qualche scossone al consenso europeista. Da straniero, non mi permetterò di esprimere un giudizio sui «grillini»; ma sono certo che non è il caso di sopravvalutare il populismo alla Söder. Il suo partito, la Csu bavarese, ha provato più di una volta a scodinzolare dietro a idee separatiste. Ha colto ogni occasione per polemizzare contro l’Ue, accusata di vivere alle spalle della Germania, e soprattutto della Baviera. Ma tutto ciò fa parte del folclore di questo partito, che nei momenti decisivi non ha quasi mai fatto mancare il suo consenso al processo di unificazione europea. Ed è certo significativo il fatto che in Germania, malgrado l’incombente crisi dell’euro, non si ha l’impressione che stia per sorgere un partito antieuropeo con qualche probabilità di conquistarsi un seguito.
Va detto però che i deragliamenti si fanno purtroppo sempre più frequenti. Ad esempio il signor Söder ha detto – con un’occhiata minacciosa all’Italia e alla Spagna – che nei confronti della Grecia sarebbe ora di «prendere una decisione esemplare » estromettendo questo Paese dall’Eurozona: «A un certo momento tutti devono staccarsi dalle gonnelle di mamma: per i greci questo momento è arrivato». Un altro politico della Csu, il segretario generale Dobrindt, ha accusato il presidente della Banca Centrale Europea Mario Draghi di caldeggiare l’acquisto di titoli di stato da parte della Bce «ogni qualvolta l’Italia si trova alle strette». È inammissibile che il più alto responsabile dell’Unione monetaria europea sia sospettato di anteporre gli interessi della propria nazione a quelli dell’Europa. D’altra parte, c’è stato qualche politico italiano che ha descritto Angela Merkel come autoritaria, spietata e incapace di solidarietà; e certo, una vignetta come quella pubblicata dal «Giornale», raffigurante la cancelliera col braccio alzato accanto alla scritta «Quarto Reich», non è il modo migliore per promuovere lo spirito comunitario. Il ministro degli esteri tedesco Guido Westerwelle ha detto con ragione, in un’intervista recente: «In tutta Europa, sono troppi i politici che cercano di usare il fuoco della crisi per cuocere la loro stomachevole zuppa neonazionalista».
Nell’intervista concessa a «Spiegel», Mario Monti ha parlato di una «contrapposizione frontale tra Nord e Sud», sostenendo la necessità di «lasciare un certo margine di manovra agli Stati dell’Eurozona che seguono più puntualmente i dettami europei». Ha sicuramente ragione. L’esistenza di un divario tra il Nord e il Sud dell’Europa non è certo un’invenzione tedesca. E’ sempre sbagliato e pericoloso rifiutarsi di guardare in faccia la verità. Questa realtà va dunque riconosciuta e affrontata. Di fatto, si è commesso un errore di valutazione varando l’unione monetaria senza aver realizzato un’unione politica. Tra la Grecia e la Germania o la Francia (così come tra l’Italia e questi due Paesi) esistono concordanze, ma anche alcune dissonanze. Direi quindi – senza voler esprimere un giudizio – che forse inebriati dalla volontà di unificazione, i responsabili degli Stati dell’Ue hanno preso sottogamba i divari esistenti. E’ stato un errore che oggi emerge in piena luce. Deve esistere una possibilità di discuterne, senza per questo decretare la fine della solidarietà tra gli Stati europei. Ma ciò dovrebbe comportare anche quanto il presidente Monti ha implicitamente chiesto: la Germania deve essere pronta, se del caso, a concedere maggiori spazi di manovra a determinati Paesi, e a rinunciare alla sua rigidità sulle questioni di principio, che non è un segno di forza e neppure di brutalità, bensì al contrario di debolezza e mancanza di fantasia politica.
Se non si vuole che l’Europa si spacchi, l’Ue non deve abbandonare la via dell’integrazione politica ed economica. Ma al tempo stesso deve riservare particolare cura a un retaggio costitutivo per l’Europa: quello dei suoi Stati nazionali. Un retaggio che può anche non piacere. Qualcuno potrebbe auspicarne il superamento. Ma dev’essere preso sul serio e rispettato. Ecco perché una frase di Mario Monti mi è sembrata pericolosa. Nella sua intervista a «Spiegel» il premier italiano ha detto: «Ovviamente ogni governo deve regolarsi in base alle decisioni del parlamento. Ma ciascun governo ha anche il dovere di educare il rispettivo parlamento. «No, signor primo ministro: nessun governo ha questo dovere. Certo, i governi devono dialogare con i parlamenti senza timidezze – non però cercare di piegarli alla propria volontà. Questa questione è cruciale per il concetto stesso di democrazia rappresentativa. Il parlamento incarna la sovranità, ed è per ciò stesso l’istanza più importante. La crisi dell’euro ha dimostrato, sia in Grecia che in Italia e in Germania, quanto l’integrità dei poteri dei parlamenti sia oggi a rischio. Ad esempio i parlamentari, sotto la pressione della crisi e dei mercati, sono chiamati a prendere decisioni su una serie di «paracadute» di dimensioni inimmaginabili. E c’è chi ha ammesso apertamente di non sapere in realtà per che cosa stava votando. Siamo in presenza di un grosso dilemma dell’attuale politica europea, di cui è stato detto (da Angela Merkel) che «non ha alternative». In altri termini: il dibattito non è gradito. Ma le alternative e i dibattiti sono l’elisir di vita di ogni democrazia. La politica si genera nello spazio pubblico. E se il premier «tecnico » Mario Monti sostiene, come sembra, che i tecnici debbano educare i politici, evidentemente il suo è un malinteso impolitico. Un’Europa governata da esperti sarebbe un incubo. E non avrebbe alcuna probabilità di sopravvivere.
Traduzione di Elisabetta Horvat L’autore è Direttore del quotidiano Die Welt.
La Repubblica 07.08.12
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