Dobbiamo prepararci ad un’altra estate sull’ottovolante con forti fluttuazioni degli indici di Borsa e dello spread e poi ad un autunno di campagna elettorale anticipata, con il rischio di un ritorno della peggiore politica, quella fatta di promesse vuote quanto anacronistiche. Speriamo che i media ci risparmino le interpretazioni, spesso tra di loro contraddittorie, di ciò che fanno mercati isterici nelle loro reazioni. Perché l’attesissima riunione del board della Banca Centrale Europea di giovedì 2 agosto ci ha consegnato tre messaggi che non possono che lasciare le aspettative volare prive di alcun ancoraggio. Primo, malgrado le dichiarazioni di Draghi di una sola settimana fa, non c’è oggi un garante, un’autorità in grado davvero di “fare qualunque cosa per preservare l’Euro”. La Bce sta ancora decidendo cosa fare e, in ogni caso, interverrà solo dopo un accordo tra governi che fissi impegni cogenti per il beneficiario in termini presumibilmente di politiche ulteriormente restrittive. Questo significa che i mercati continueranno ad assegnare un’alta probabilità all’evento di una fuoriuscita dall’Euro di paesi come la Spagna e l’Italia, valutando il rischio paese in base a questa prospettiva. È la logica che oggi permette alla Francia di indebitarsi offrendo rendimenti negativi, pur avendo chiuso il 2011 con un deficit superiore al a6% e un debito vicino al 90% e senza che nell’orizzonte di programmazione del governo transalpino sia previsto anche un solo anno di pareggio di bilancio. L’Italia, al contrario, continua a pagare tassi vicini al 6% pur avendo conseguito un avanzo primario nel 2011 ed essendo in corsa per il pareggio di bilancio nel 2014. Il fatto è che i mercati non prendono neanche in considerazione l’ipotesi di un’uscita della Francia dall’Euro, rischio invece contemplato seriamente per il nostro Paese.
Secondo, questo garante non c’è perché l’architettura dell’Euro difetta di una qualsiasi istituzione sovranazionale. La Bce ha dimostrato in questi giorni di non esserlo. Non è bastato a Draghi isolare la posizione della Bundesbank ai vertici della Banca Centrale Europea perché, al momento delle decisioni, non ha voluto o, peggio ancora, non ha potuto fare a meno di tenere conto dell’opposizione della banca centrale tedesca. Anziché annunciare il varo di un programma incondizionato di acquisti di titoli di stato dei paesi dell’Euro, si è così messa di fatto in attesa delle decisioni dei governi, prendendo tempo in attesa “dei lavori esplorativi di una commissione che ne definisca gli aspetti tecnici”. Questo significa che non c’è chi possa ovviare all’insostenibile lunghezza dei processi decisionali europei. Avremo perciò crisi vicine al punto di rottura e misure tampone chissà ancora per quanto tempo, speriamo senza che si arrivi mai alla deflagrazione. Per fortuna il Tesoro ha deciso di sospendere ad agosto le aste dei nostri titoli di Stato. Questo significa che gli aumenti estivi dello spread non avranno effetti sul costo del debito,
sempre che i rendimenti dei nostri titoli di Stato calino alla ripresa a settembre. Il che ci porta al terzo messaggio consegnato dal board di giovedì.
Il Mario di Francoforte questa volta ha messo in seria difficoltà il Mario di Palazzo Chigi. Per beneficiare dei programmi di sostegno della Bce, per abbattere in modo significativo lo spread, il nostro governo avrà, infatti, bisogno di chiedere l’aiuto del fondo salva-Stati e sottostare ad un Memorandum di Intesa. Questo significa, di fatto, commissariamento e un governo tecnico non può essere commissariato senza perdere credibilità nei confronti degli elettori e prestarsi ancora di più ai ricatti dei partiti. Per questo, al di là delle scelte sulla data delle elezioni, ci aspetta un autunno di campagna elettorale. Ne abbiamo già le avvisaglie con la costituzione dei vari schieramenti e i primi documenti programmatici. Non sarebbe necessariamente un male se questi documenti si confrontassero coi veri problemi. Sin qui abbiamo soltanto un piano clandestino (impossibile averne copia a diversi giorni dall’annuncio della sua presentazione) di abbattimento del debito da parte del PdL, cioè di chi in dieci anni di governo non ha dismesso alcun bene pubblico. E poi c’è la carta di intenti del Pd di cui sorprende non tanto la vaghezza, scontata in programmi elettorali, quanto l’incapacità di fare i conti con l’Europa. Oggi il Paese non ha bisogno di europeisti e antieuropeisti, ma di proposte per ridisegnare l’Europa, perché l’unione monetaria così com’è, come prova la riunione di giovedì, non può reggere. Non c’è affatto bisogno di ribadire la vocazione europeista perché questa unione monetaria non può andarci bene. C’è bisogno perciò di prefigurare un sentiero per raggiungere maggiore integrazione nelle politiche fiscali, nella supervisione bancaria e nella politica, pensando a nuove istituzioni davvero paneuropee. Perché è solo questa la condizionalità che può permettere di conciliare la solidarietà dei paesi forti con l’assenza di comportamenti opportunistici da parte di chi riceve aiuto. Ci vuole una rinuncia alla sovranità, una condizionalità costituzionale, con un bilancio federale in graduale ma costante crescita, che legittimi anche l’adozione di vincoli al bilancio in pareggio nei singoli paesi dell’Unione. Quella proposta sin qui dall’Europa e accettata giovedì dall’Eurotower è, invece, una condizionalità contrattuale. Bisogna negoziare e sottoscrivere, di volta in volta, un accordo programmatico che rischia di essere di breve respiro, di indurre un consolidamento fiscale troppo rapido e di concentrarsi sui simboli anziché sugli ingranaggi che possono far ripartire l’economia dei Paesi interessati.
Pubblicato il 4 Agosto 2012