Ladri di diritti. Sabotatori. Nemici dei lavoratori Ilva. I responsabili del blitz che ieri ha tentato di rovinare la manifestazione unitaria possono essere chiamati in molti modi, ma non “contestatori”. Chi contesta, anche duramente, usa gli strumenti della dialettica e della democrazia. Sostiene tesi e propone alternative, rimettendole al voto e al giudizio dei più. Quando la protesta si riduce ad azione violenta e si rivolge contro quegli operai che si pretenderebbe persino di rappresentare, allora diventa puro teppismo. O, peggio, deliberata e destabilizzante strategia antisistema.
Piena solidarietà, dunque, ai leader dei tre sindacati, che hanno coraggiosamente deciso di concludere i loro interventi, dando forza agli strumenti del confronto alla rappresentanza democratica. E, soprattutto, pieno sostegno alle migliaia di lavoratrici e lavoratori che hanno dato forma a una lotta puntuale, pacifica, composta, ma non per questo meno dura. La responsabilità di queste persone conferisce una forza formidabile ai loro argomenti. A cominciare dal fatto che l’Ilva non può e non deve assolutamente chiudere. Serrare quei cancelli metterebbe per strada oltre 20mila lavoratori, tra dipendenti e addetti dell’indotto, causando un danno incalcolabile per quella terra, per il Mezzogiorno e per tutta l’Italia. È evidente che non è ammissibile alcuno scambio tra lavoro e salute pubblica. Ma è altrettanto chiaro che se esistono – come sembra che esistano – possibilità di coniugare i processi di bonifica con la continuità produttiva, queste devono essere colte ad ogni costo. Vuol dire, per essere chiari, non interrompere le colate a caldo prima di aver fatto ogni verifica su possibili soluzioni alternative. Dopo Termini Imerese un altro pezzo fondamentale dell’industria meridionale rischia di trovarsi al bivio tra la sopravvivenza e la scomparsa.
La chiusura di una della più importanti realtà produttive meridionali determinerebbe una desertificazione industriale e sociale difficilmente reversibile nell’attuale contesto congiunturale.
Causando danni all’economia di tutto il paese e producendo ripercussioni inimmaginabili sul sistema-Mezzogiorno. Basti pensare, per fare solo un esempio, al rischio di dissipazione pressoché irreversibile del capitale umano che opera nell’impianto. Un vero e proprio tesoro fatto di specializzazione e professionalità, che ha protetto il territorio da un destino di emigrazione collettiva.
In questa fase cruciale, il governo deve farsi protagonista e garante della immediata attuazione del protocollo di risanamento definito con le parti sociali. Buone notizie sono arrivate ieri dal ministro dell’ambiente Corrado Clini e da quello dello sviluppo Corrado Passera, che hanno annunciato l’intenzione di sottoporre al consiglio dei ministri di oggi un decreto che consenta di accelerare le bonifiche necessarie all’avvio della produzione eco-compatibile. Un passo importante, che deve trasformarsi in un cammino verso concreti strumenti di sostegno nazionale. Vuol dire realizzare investimenti pubblici, ripristinare fiscalità di sviluppo e attivare contratti di programma, ma anche formare quadri normativi rigorosi e coerenti, che impongano il reimpiego di una quota del profitto su tecnologie capaci di ridurre l’impatto ambientale.
Azioni in parte già avviate dall’amministrazione regionale pugliese che, negli anni del berlusconismo e in perfetta solitudine, ha imposto all’Ilva misure che abbassano drasticamente i limiti di inquinamento, inducendola a investire circa un miliardo di euro in innovazione ambientale. Questo confronto, sfociato più volte in vero e proprio scontro con l’azienda, ha già determinato l’abbattimento del 90 per cento dei livelli di diossina prodotti. È un risultato sufficiente? Probabilmente no. Tuttavia è impossibile non riconoscere in questo traguardo l’avvio di un cammino virtuoso. Forte del sostegno e del ritrovato impegno del governo nazionale, questo percorso va ora accelerato e non certo fermato.
da Europa Quotidiano 03.08.12