Non si può scaricare sugli studenti il conto della crisi. Come vorrebbe fare l’establishment universitario, costituito dai ministri – con i politici e consiglieri che li sostengono – dalle burocrazie accademiche e da molti professori che scrivono sui giornali. Questa lobby è uscita allo scoperto col governo tecnico, dopo aver sostenuto dietro le quinte le leggi Moratti e Gelmini che hanno portato l’università al collasso. È pronta a difendere i propri interessi colpendo gli anelli deboli del sistema. 1. Dopo i condoni fiscali di Tremonti arrivano i condoni accademici di Profumo. Viene infatti sanata l’illegalità, già sanzionata dal Tar di Pavia, degli atenei che hanno superato per colpa dei tagli la soglia del 20% delle tasse universitarie rispetto ai fondi statali. E viene sanata anche l’illegittima proroga dei rettori oltre il mandato elettivo, già autorizzata dal ministero, ma bocciata dal Tar di Perugia. Sono norme scritte contro le sentenze dei Tribunali e chiaramente incostituzionali per estraneità di materia con la spending review. Per giustificare lo status quo l’establishment ha sempre bisogno dell’agnello sacrificale. E gli studenti fuori corso sono diventati i nuovi untori da mettere in castigo nella prima pagina del Corriere della Sera. Secondo i dati di Almalaurea, invece, il ritardo negli studi è di circa tre anni per i lavoratori che studiano, di un anno e mezzo per gli studenti con lavori occasionali o stagionali e solo nove mesi per quelli a tempo pieno nello studio. I commentatori nostrani non sanno che il ritardo nelle università americane è molto più ampio. Molti nostri giovani accettano lavoretti occasionali per mantenersi agli studi, anche se questo ne ritarda la conclusione, tanto pensano che la laurea non cambierà di molto la condizione precaria e quindi non c’è motivo di sbrigarsi. Servirebbe il part-time per impegnare lo studente su un tempo definito anche superiore alla durata nominale, come prevede una legge quasi inapplicata dagli atenei. Inoltre, il ritardo per gli studenti che non lavorano si produce quasi tutto nel primo anno, a causa di ben note carenze nell’orientamento degli studi, nei servizi e nel tutoraggio. Invece dei tagli, bisognerebbe spendere di più per gli studenti allo scopo di aumentare il numero dei laureati, secondo l’impegno già preso in Europa. Se, però, gli impegni europei sono cogenti per le pensioni e i licenziamenti, ma non per i laureati, allora rimane solo da tartassare i fuori corso in modo da convincerli a lasciare gli studi. E ancora peggio aumentare le tasse anche agli studenti al passo con gli esami, e meno male che il Pd è riuscito a tutelare i redditi sotto i 40mila euro. Tutto ciò è benzina sul fuoco mentre crollano le immatricolazioni, meno 10% solo nell’ultimo anno. Le risorse necessarie si potevano trovare alzando l’asticella per i professori iscritti agli albi professionali che oggi sono impegnati a tempo parziale nell’università pur essendo pagati con lo stipendio intero. Secondo dati del Sole-24-Ore si risparmierebbero circa 400 milioni di euro ripristinando le rigorose norme del tempo pieno cancellate dalla Gelmini. Ma certo è più facile prendersela con gli studenti. 2. Altri segnali negativi vengono dal taglio ingiustificato agli Enti di ricerca per il 2013, nonostante i successi internazionali del bosone di Higgs. Questo è l’unico settore della spesa pubblica sottoposto alla valutazione dei risultati e la spending review avrebbe dovuto solo prenderlo ad esempio. E non si doveva smantellare l’Istituto di ricerca sull’alimentazione, proprio mentre il Paese si candida alla leadership su Nutrire il Pianeta con l’Expo di Milano. Per evitare i tagli bastava sottrarre qualche decina di milioni di euro all’IIT, l’unico ente di ricerca non sottoposto a valutazione e super finanziato, tanto da non riuscire a spendere i fondi, che infatti distribuisce discrezionalmente ai rettori, senza bandi pubblici. E anche il ministro Grilli, come ex presidente dell’IIT, avrebbe fatto una bella figura. 3. Infine, la norma più grave che chiude le porte all’università ai giovani ricercatori già scoraggiati da cinque di anni di blocco dei concorsi. Per compensare le carenze della didattica le burocrazie accademiche hanno ottenuto dal ministro altri strumenti: maglie più larghe per la chiamata diretta di professori, incarichi gratuiti di insegnamento per i precari, obblighi didattici perfino per i giovani assegnisti. Per un’intera generazione di talenti rimane solo una triste alternativa: lasciare il Paese oppure dimenticare la passione per la ricerca. D’ora in poi però non saranno più tollerate le lacrime di coccodrillo dell’establishment sulla fuga dei cervelli. E toccherà al governo di centrosinistra ripartire da una grande politica per il sapere dei giovani.
L’Unità 02.08.12