Non è possibile nessuna discussione sul presente e sul futuro, nessuna valutazione sul governo Monti e sul “dopo Monti”, se non vi è un giudizio condiviso su due aspetti centrali. Vi è da un lato la situazione economica internazionale, la più grave conosciuta dalle generazioni cresciute dopo la guerra: forse mai, neppure nella crisi petrolifera degli anni Settanta, l’incertezza per il futuro è stata così forte, le incognite così dense, e così presente il rischio di un precipitare disastroso degli eventi. Evi è d’altro lato un rifiuto della “politica esistente” che non è stato così radicale neppure nell’inabissarsi della “prima Repubblica”.
Sul primo versante appare sempre più decisiva la capacità del governo di ridare al Paese quella credibilità e quel prestigio internazionale che Berlusconi aveva mandato in cenere. E di trasformare progressivamente non solo modi di governare ma anche modi di essere profondamente radicati: entrambi gli elementi sono alle origini dell’abnorme debito pubblico che da vent’anni incombe come un macigno, pesantissima eredità dei dissennati anni Ottanta.
Il poco dignitoso sfaldarsi del Popolo delle Libertà e della Lega rende ancora più evidente l’irresponsabilità e l’inconsistenza politica di un centrodestra che ha largamente improntato di sé la “seconda Repubblica”. E che talora tenta ancora di impartire lezioni dal basso dei suoi fallimenti e delle sue demagogie. Non si dimentichi che all’indomani delle elezioni ammini-strative di un anno fa sia Berlusconi che Bossi pensarono perfino di trovare l’“antidoto” alla propria sconfitta in misure fiscali “popolari”: destinate — se attuate — ad accelerare il disastro.
In questo ignorare o sottovalutare la gravità della bufera internazionale, in questo prescindere dalle dure pregiudiziali che sono obbligatorie per avviare la ripresa, il centrodestra purtroppo non è sempre solo. Si pensi ad esempio a taluni aut aut che Di Pietro e Vendola pongono talora al Partito democratico. L’aut aut vero lo ha imposto l’emergenza drammatica cui il centrodestra ha portato il Paese: il banco di prova è stato costituito dal governo Monti e dalle scelte da compiere di fronte ad esso. Il Partito democratico ha deciso di sostenerlo, pur conoscendo i limiti inevitabilmente posti da un Parlamento nato con una forte maggioranza di centrodestra. L’Italia dei valori e Sinistra e libertà — sia pure in forme molto differenti — hanno compiuto sostanzialmente un’altra scelta, e oggi la ribadiscono senza riflessioni autocritiche: hanno messo cioè al primo posto la propria identità e la propria parzialità. Si sono ispirate alla stessa logica che portò la Rifondazione di Bertinotti ad affondare il primo governo Prodi, di gran lunga il miglior governo della “seconda Repubblica”. Qui c’è un discrimine vero, e fa bene il Partito democratico a tenerlo fermo, ma proprio la gravità della crisi impone al tempo stesso di dare alimento alla speranza e di fornire risposte reali a quelle esigenze di equità sociale che non hanno trovato sin qui lo spazio necessario. In altri termini, rende sempre più urgente passare dall’emergenza alla costruzione di futuro e mettere in campo proposte limpide di buona politica, capaci di mettere in moto energie nuove. E giovani.
Qui vi è l’altro, drammatico versante della nostra crisi: l’esplodere di un rifiuto della “politica esistente” che ha trovato soprattutto in se stesso le proprie ragioni. Non ha avuto bisogno di alimentarsi con ansie e pulsioni “territoriali”, come è stato vent’anni fa nel successo leghista. E non ha avuto il supporto della “demagogia del miracolo” del Cavaliere. Né ha dovuto ricorrere a un programma convincente e a proposte credibili: anzi, è sembrato affermarsi proprio grazie a questa duplice assenza e grazie a un leader esplicitamente “non candidabile” alla guida del Paese. Le difficoltà del “movimento cinque stelle” all’indomani del suo primo trionfo non lo hanno certo frenato, e non devono comunque far rimuovere il drammatico problema di disaffezione e di sfiducia che è alla base di esso. O i tracolli anche etici della “seconda Repubblica”.
Da molti mesi è sempre più evidente e urgente la assoluta necessità di una radicale riforma della politica, dei suoi “costi” e del suo modo di essere, eppure nulla o quasi è stato fatto. È gravissima l’inconcludenza dei partiti su questo tema, ed è ancor più grave la pochezza delle proposte prese faticosamente e lentamente in considerazione. Vi è qui un vero abisso fra il loro orizzonte e quello che il Paese si attende: due linguaggi e due modi di pensare lontani anni luce. Ma qual è oggi il punto di vista decisivo? A quale è necessario riferirsi per ritessere il rapporto lacerato fra gli italiani e i loro rappresentanti? Fra i cittadini e le istituzioni? A questa domanda è sempre più necessario rispondere, perché senza un rinnovamento profondissimo su questo terreno non è possibile rimettere in moto il Paese. Non è possibile riformare le sue strutture e al tempo stesso taluni modi di essere ampiamente diffusi.
I mesi stessi che sono trascorsi dalla fine del governo Berlusconi fanno oggi sembrare davvero fuori stagione le proposte precedenti: a partire da un “nuovismo” già invecchiato che sembra quasi prescindere dalle incognite reali che incombono. Sarebbe altrettanto inadeguato del resto — o meglio, impraticabile e suicida — un centrosinistra capace di mettere in campo solo una sommatoria di esponenti di partito. Una riforma radicale della politica e delle sue dinamiche si basa anche sulla capacità di proporre una forte innovazione e un forte ricambio generazionale. E di indicare al tempo stesso una possibile squadra di governo che non prescinda dall’esperienza di questi mesi ma prenda avvio da essa per andare oltre. Essa esige cioè che il gruppo dirigente del centrosinistra si assuma per intero le sue responsabilità: e forse ci si potrebbe anche chiedere se in questo percorso le primarie siano davvero la via unica e decisiva, o comunque sufficiente. Una domanda, solo una domanda: ad essa ciascuno può rispondere secondo le proprie valutazioni e le proprie riflessioni ma forse non andrebbe rimossa.
La Repubblica 30.07.12