Siamo pronti a tutto per salvare l’euro”. È bastato che Mario Draghi pronunciasse con fermezza queste poche parole. E, come d’incanto, la situazione sui mercati finanziari si è rovesciata. Dopo i disastri di inizio settimana la Borsa di Milano ha chiuso in rialzo del 5,62 per cento, mentre il fatidico differenziale dei nostri Btp rispetto ai Bund tedeschi ha recuperato di colpo 50 punti dall’allarmante 525 di mercoledì al 473 di ieri. Del tutto analoga la svolta per gli indicatori dell’altro Paese sotto il mirino della speculazione, la Spagna: la Borsa di Madrid ha registrato un balzo del sei per cento, mentre i Bonos iberici in corsa verso l’otto per cento sono ritornati sotto quota sette.
Poiché il mondo della finanza internazionale non è terra di miracoli, né improvvisi né duraturi, l’effetto spettacolare della sortita del presidente della Bce induce a due prime e sommarie considerazioni. L’una è che gli ultimi assalti sui mercati puntavano sì a saggiare la resistenza dei Paesi più esposti della zona euro ma anche e soprattutto a scommettere sull’incapacità politica delle istituzioni europee e dei singoli governi nazionali a mettere in campo una strategia efficace per spezzare l’assedio in atto. In quest’ultimo mese, in effetti, l’Europa ha saputo proiettare all’esterno la peggiore immagine di se stessa: solenni annunci di accordi unanimi, subito rimessi in discussione da dissensi resi inutilmente pubblici senza ritegno, un andirivieni di dichiarazioni contraddittorie col solo esito di versare nuova benzina sui fuochi della speculazione in un crescente marasma politico da nave senza nocchiero in gran tempesta.
Che in queste condizioni i manovratori di grandi capitali siano stati tentati di dare l’assalto finale alla traballante fortezza dell’euro era il minimo che potesse capitare. Mario Draghi ha avvertito che questa era diventata la posta in gioco e con encomiabile tempismo è andato a colpire al cuore simili aspettative schierando in battaglia l’unica istituzione del sistema euro che, pur senza avere i pieni poteri delle altre banche centrali, ha o può comunque trovare le munizioni per ingaggiare uno scontro con il fronte avverso rendendo più difficile e sicuramente più costosa la scommessa di chi punta alla disgregazione dell’euro. La ritirata di ieri non dice affatto che gli speculatori abbiano disarmato, ma indica che ora devono rifare i propri conti tenendo presente che a Francoforte c’è un’istituzione europea determinata a fargliela pagare in ogni caso molto più cara del previsto.
Quanto accaduto — ed ecco la seconda e forse più utile considerazione — è anche una controprova pratica della bontà dell’argomento messo sul tavolo da Mario Monti all’ultimo vertice di Bruxelles per convincere gli altri condomini dell’euro a far partire il cosiddetto scudo anti-spread. Agli esosi titubanti trincerati dietro il timore di dover impegnare grandiose quantità di denaro, il premier italiano ha insistito nel richiamare a tutti una regola elementare del gioco delle aspettative. Attenzione — ha sostenuto — basterà che il contestato scudo sia costituito attraverso una congrua dotazione di risorse per scoraggiare la baldanza degli assedianti con poca o forse addirittura nulla spesa.
Mai come a questo punto, insomma, appare di un’evidenza assoluta che il superamento almeno di quest’ultima fase acuta della tempesta monetaria dipende in primo luogo dalla capacità di battere un colpo risolutivo da parte dei governi dell’euro. Mario Draghi ha esercitato ieri una preziosa funzione di supplenza ma è essenziale che gli effetti positivi delle sue parole siano corroborati da pronte decisioni delle autorità politiche. Se sui mercati si dovesse diffondere l’impressione che la Bce sarà lasciata sola in battaglia per il protrarsi di ottuse dialettiche di dissenso fra le diverse cancellerie, la stessa sortita di Draghi raggiungerebbe lo scopo opposto a quello desiderato aggravando la situazione oltre il limite del sostenibile. A ben vedere, quindi, ieri il presidente della Bce ha lanciato un messaggio che contiene una duplice sfida. Agli speculatori da un lato, ma anche ai governanti riottosi e inconcludenti dall’altro.
La Repubblica 27.06.12