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Rita Levi Montalcini e i suoi 100 anni: “il cervello? Non va in pensione”, di Massimo Di Forti

Ha attraversato il Novecento, questo secolo di impensabili conquiste e apocalittici orrori, con passo leggero e ferma determinazione. In una sala della Fondazione che porta il suo nome, esibisce un intatto carisma, i luminosi occhi verdi e la corona di candidi capelli, la voce musicale e l’innata eleganza, schiena dritta e testa alta, un aristocratico temperamento e una profonda attenzione per il prossimo, ma niente cedimenti o indulgenze e men che mai per se stessa. Last but not least una mente che viaggia ad alta velocità.

Rita Levi Montalcini sorride e poi commenta con irrefutabile asciuttezza: «Il segreto della mia vitalità è che vivo ora per ora, continuamente impegnata nella ricerca scientifica e nei problemi sociali. Non ho tempo di pensare a me… La mia vitalità deriva dalla totale indifferenza a me stessa». Scandisce le ultime parole.

La Professoressa, premio Nobel per le neuroscienze nel 1986 e senatrice a vita, è nata il 22 aprile 1909. Mercoledì compie cento anni. Tra celebrazioni e interviste, affronta un impressionante tour de force, affiancata da Giuseppina Tripodi, sua inseparabile collaboratrice da 40 anni e coautrice di libri come Le tue antenate sulle grandi scienziate della storia e la biografia La clessidra della vita di Rita Levi Montalcini, da Iole Cisnetto, curatrice della comunicazione per questi festeggiamenti, e da Pietro Ientile, suo assistente al Senato.

«Cento anni? Sono un’età ideale per fare scoperte», dice allegramente. «Guai a mandare il cervello in pensione. Lavoro giorno e notte con un’équipe eccezionale. All’Ebri, l’European Brain Research Institute, io e i miei giovani collaboratori stiamo approfondendo gli studi sull’Ngf, che accompagna lo sviluppo degli esseri umani dalla fase prenatale fino all’invecchiamento. Queste ricerche potrebbero avere conseguenze importanti per combattere le malattie neurodegenerative ed avere un farmaco efficace contro l’Alzheimer».

La scoperta del Nerve Growth Factor, al quale l’Ebri dedicherà mercoledì un convegno internazionale in Campidoglio, le valse il Nobel. Racconta: «Ci arrivai con la fortuna e l’intuizione. Trovai l’Ngf, il fattore di crescita delle cellule nervose, perché lo cercavo con grande convinzione. Ero sicura che dovesse esistere. Quella scoperta smontò l’idea che il sistema nervoso centrale fosse statico e programmato geneticamente».

Confessa serenamente di non essersi mai innamorata: «No, non lo sono stata. Ho avuto amicizie profonde, ma veri amori, no… Mio padre, uomo vittoriano, pensava che io e le mie due sorelle anziché studiare dovessimo essere educate a un futuro di madri e mogli ma alla fine cedette e io potei frequentare l’università. Fu una grande vittoria».

I suoi autentici Amori – a parte lo straordinario legame con la sorella gemella Paola, notevole pittrice, spentasi nel 2000 – sono stati la Scienza e gli Altri.
Ricorda: «Da giovanissima, il mio desiderio era di andare in Africa da Albert Schweitzer a curare i lebbrosi. Oggi, dedicare me stessa ad aiutare il prossimo è quello che conta. Dobbiamo una totale dedizione a chi ha bisogno di aiuto, soprattutto alle popolazioni che sono state più sfruttate come quelle africane, specialmente alle donne che sono state distrutte fisicamente e psichicamente. Io e Giuseppina Tripodi abbiamo scritto un libro, Eva era africana, e creato circa 7 mila borse di studio per permettere a queste donne di godere di un’adeguata istruzione e dimostrare il loro valore. Noi, popoli “colti”, siamo colpevoli dei crimini della schiavitù e del colonialismo che hanno sconvolto l’Africa e anche oggi abusiamo di quel meraviglioso continente, mentre dovremmo continuamente scusarci del male che abbiamo fatto in passato».

La Professoressa, il Male, lo ha conosciuto, lo ha subìto, lo ha combattuto. Ma, dopo queste durissime esperienze, per lei, che cos’è il Male? Dice: «Il male è l’eccessivo desiderio del proprio benessere e il disinteresse per il bene comune. Sappiamo che una minima frazione dell’umanità che vive nei paesi sviluppati gode di un eccezionale benessere mentre la grande maggioranza soffre in modo incredibile. Questo è il male: cullarci nel nostro benessere e disinteressarci degli altri che soffrono».

Il Novecento è stato un secolo sublime e terribile che ha accomunato come nessun altro Bene e Male, ineguagliata creatività e agghiacciante distruttività, il genio di Einstein o di Gandhi e la follia criminale di Hitler. Lei, che lo ha vissuto da protagonista, che bilancio ne fa? «E’ difficile rispondere», ammette. «E’ vero. Ci sono stati massimi successi scientifici o sociali e massimi orrori. Però questo non è stato la conseguenza di un destino genetico ma di sviluppi epigenetici, culturali. Tutto comincia dal periodo formativo dei primi cinque anni di vita del bambino che riceve una serie di informazioni o insegnamenti, veri e falsi: tu sei di razza inferiore o superiore e così via… Invece, non esistono razze ma razzisti e sono queste superstizioni che possono portare alla distruzione di sei milioni di persone… Gli esseri umani non sono programmati geneticamente ma influenzati culturalmente. Ecco perché bisogna reagire con l’educazione».

Continua con un paradosso: «Non bisogna mai darsi per vinti. Io stessa dovrei “ringraziare” Mussolini per avermi giudicata persona di “razza inferiore” e avermi così costretta a lavorare segregata nella mia camera da letto, dove avevo allestito un piccolo laboratorio e cominciato le ricerche che mi hanno portato al Nobel».

Le riferisco che qualche anno fa il professor James Watson mi disse: “Il XXI secolo sarà il secolo del cervello”. Si avvererà la profezia dello scopritore del Dna? «La conoscenza che oggi abbiamo del cervello è una condizione necessaria per pervenire alla comprensione della mente. Questa proprietà è la suprema conquista della materia vivente, alla quale l’Homo sapiens deve il privilegio di scalare le vette del bene, la tragica possibilità di sprofondare in quelle del male e di riuscire a emergere dagli abissi della sofferenza a fronte alta».

Ma, sulla base delle conoscenze che abbiamo del cervello, esiste la possibilità di manipolare il comportamento umano? E come potremmo impedirla? Risponde: «E’ opinione diffusa che la scienza sia agnostica per quanto riguarda l’etica. Ma lo scopo e la finalità ultima della scienza è la ricerca della verità, e la metodologia perseguita da uomini che si prefiggono questo scopo si deve uniformare alla massima onestà e obiettività, cioè a concetti che sono alla base stessa dei sistemi etici».

Tra microchip, neuroprotesi e stimolazioni cerebrali, però, l’uomo bionico è ormai una realtà: con quali rischi e prospettive? «La crescente conoscenza di questi sviluppi ha aumentato la speranza circa la possibilità di penetrare nei più reconditi recessi del cervello e nelle proprietà cognitive dell’Homo sapiens. L’informatica e la cibernetica hanno fornito la chiave di accesso per estendere le nostre conoscenze dell’universo cosmico e le nostre stesse capacità di pensare. Dobbiamo capire che i contributi della scienza e della tecnologia non possono significare soltanto comfort e migliore qualità della vita materiale. La scienza deve portare soprattutto verità, e con la verità, la pace». Cento anni non sono pochi. Ma l’avvenire dura a lungo.
Il Messaggero

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