Nessuno di noi sa quel che voglia in concreto il governo tedesco: se vuol salvare l’euro sta sbagliando tutto. Se gioca allo sfascio ci sta mettendo troppo tempo. Nessuno sa come intenda procedere la Banca centrale europea. Draghi ha detto a Le Monde che l’euro è irreversibile che la Bce «è molto aperta e non ha tabù». Ha detto perfino che «non siamo in recessione». Ma venerdì scorso ha deciso che non accetterà più titoli di stato greci in garanzia, dando il via alle danze macabre attorno a Atene e votandola all’espulsione.
Decisione singolare, perché qualche giorno prima Jörg Asmussen, socialdemocratico tedesco del direttorio Bce, aveva detto alla rivista Stern che bisogna «aver rispetto per gli sforzi greci». Una contrazione di 5 punti di pil sarebbe tremenda per chiunque, Germania compresa: «Dovremmo almeno dire a Atene: ben fatto, buon inizio». La maggioranza nella Bce non sembra d’accordo: smentendo che siamo in recessione, si allinea non tanto alla Merkel ma all’ala più dura del suo governo. Nessuno sa infine a che siano serviti 19 vertici di capi di Stato o di governo. Dicono che gli Europei stanno correndo contro il tempo. Ben più tragicamente l’ignorano, vivono nella denegazione del tempo, dei fatti. Se tutte queste cose non le sappiano noi, figuriamoci i mercati: il caos che producono è il riflesso molto fedele del caos che regna nelle teste, negli atti, nelle parole dei capi che pretendono governare l’Unione.
Il tempo imbalsamato, mentre la storia precipita. La nefasta lentezza con cui si muovono politici e Bce: nei libri di storia, se finisse l’euro, si parlerà di strana disfatta dovuta a questo tempo che s’insabbia: strana perché il tracollo, essendo politico più che economico, poteva essere evitato. La Grecia esce, non esce? Lo sapremo a settembre, quando parlerà la trojka (Commissione, Bce, Fmi). Il Fondo salva-Stati nascerà, anche se con pochi soldi? Da settimane, l’intero Sudeuropa sta appeso alla decisione che la Corte Costituzionale tedesca prenderà, il 12 settembre, su Fondo e Patto di bilancio (Fiscal Compact).
I due accordi sono compatibili con la costituzione tedesca, e in particolare con il
principio di democraziache nell’articolo 20 fa discendere il potere dello Stato dalla sovranità del popolo e del Parlamento?
Fino ad allora resteremo appesi, come d’autunno le foglie sugli alberi. La foglia greca già è semi-staccata, ma la morte va inflitta a fuoco lento. Alcuni dicono che l’espulsione serve a sfamare il sotterraneo bisogno tedesco di punire, più che di aggiustare. Di sfasciare e comandare, più che di ricostruire e guidare. Anche per questo, incerti più che mai sulla voglia europea d’esistere, i mercati impazziscono.
Non sono dilemmi secondari, quelli trattati a Karlsruhe: sono in gioco la sovranità del popolo, il suo diritto inalienabile a influire sui bilanci nazionali. Da anni la Corte tedesca se ne occupa, e certo gli occhiali che inforca sono nazionali: non conta nulla la sovranità del popolo europeo, rappresentato con flebile forza dal Parlamento europeo ma pur sempre rappresentato. Tuttavia è troppo facile tacciare lei, e i tedeschi, di nazionalismo. Il fatto è che da quasi vent’anni la Corte s’accanisce su materie essenziali per noi tutti. Che sovranità possiedono esattamente gli Stati, e com’è esautorata dall’Unione? Il Parlamento europeo ha la forza e le prerogative per incarnare un interesse generale europeo, una sovranità parallela cogente come quelle nazionali?
L’unica certezza, nell’odierno turbine monetario, è che gli Stati sono ormai un ibrido: non più sovrani, non sono ancora federali. Di questo si parla a Karlsruhe: non solo di democrazia tedesca, ma del profilo giuridico, costituzionale, politico che dovrà darsi l’Unione: sempre che la si voglia salvare. Che si voglia dire ai popoli il mondo caotico che abitano e come evolverà.
La cosa grave è che la Corte discute, sentenzia, in totale isolamento. Nessun’altra Corte, o partito, o governo, ragiona in Europa su tali problemi. Ci si lamenta del peso abnorme dei giudici tedeschi, ma su Unione e sovranità democratica non circolano idee alternative, né tantomeno comuni. Neppure il Parlamento europeo è scosso da accordi ( Fiscal Compact, Meccanismo di stabilità ovvero Esm) che di fatto estromettono i deputati di Strasburgo, non essendo Trattati comunitari ma internazionali. L’Unione già si trasforma, influenzando sempre più le vite dei cittadini, ma fino a quando non saranno sciolti i due nodi vitali – quello della democrazia, quello di una Bce che non può intervenire come la Banca centrale americana o giapponese, perché nessuno vuole affiancarle un governo federale – la sua sovranità sarà considerata illegittima, non credibile, sia dai cittadini sia dai mercati. L’indipendenza della Bce è importante, ma a che serve se l’Unione – a differenza dell’America, del Giappone, dell’Inghilterra – non ha il dominio della propria moneta? Uno scettro è stato tolto agli Stati, e giace per terra nella polvere.
Solo in Germania è forte, in alcuni dirigenti, l’esigenza di codificare le presenti mutazioni: lo impone il principio di non contraddizione (è impossibile che due proposizioni divergenti abbiano lo stesso significato). Per questo la Corte costituzionale sta lì e si rompe il cervello. Il ministro Schäuble, monotonamente chiamato il falco, lo ha detto in piena crisi dell’euro, il 18 novembre a Francoforte: «Dall’8 maggio 1945 la Germania non è mai stata sovrana (…) Da almeno un secolo la sovranità è finita ovunque in Europa». Di qui la necessità di una sovranità federale superiore: prospettiva invocata in Germania da molti, gradita da pochissimi. Non a caso Schäuble evita la parola sovranità: usa l’indecifrabile termine governance.
Ecco un altro concetto senza peso costituzionale. Se è governance, non è vero governo federale.
Anche ai vocabolari siamo appesi. Neppure Schäuble tuttavia ha il senso del tempo, così come non lo ha Hollande sullo Stato-nazione. Quel che né Parigi né Berlino vedono, è che il problema della sovranità politica e democratica europea non va risolto in un secondo momento, superata la crisi. Essendo all’origine della crisi, è ora che va risolto. L’interrogativo di fondo (che sovranità spetti all’Unione, come ricucire Nord, Est e Sud) va posto in mezzo al tifone degli spread, prima di espellere un paese del Sud dopo l’altro. Altrimenti non staremmo ad aspettare il verdetto di una Corte costituzionale che mette al centro non i deficit pubblici, ma sovranità e democrazia.
Naturalmente l’Europa federale non si farà subito. Ma si può fissare una scadenza, come avvenne con l’euro. Il Parlamento può farsi assemblea costituente, come già negli anni ’80. La Bce può riflettere sull’impotenza cui oggi è condannata. I mercati devono capire, finalmente, se l’Unione vogliamo farla o disfarla pezzo dopo pezzo. Cominciando col cacciare la Grecia non avremo un’Unione tedesca. Avremo una non-Unione. Intanto l’unità del continente torna a essere quella degli esordi: una questione di pace o guerra civile, di odii – anche razziali – che crescono per forza di inerzie mostruose.
Proprio perché è l’unico paese a pensare costituzionalmente, la Germania ha primarie responsabilità. Non può insistere sull’unione politica, e poi imporre il dogma nazional-liberale della «casa in ordine». Un dogma che sta facendo proseliti: «Abbiamo fatto i nostri compiti: come mai i mercati ci colpiscono lo stesso?». Ci colpiscono perché il compito casalingo non è tutto. Ha detto il governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco: «200 punti di spread sono colpa nostra, il resto è dovuto ai problemi comuni dell’euro». È l’Unione che non fa propri compiti. Quando li farà, quando avrà una Banca centrale prestatrice di ultima istanza, casa in ordine significherà qualcos’altro. Non diminuiranno gli obblighi di ognuno, ma la casa sarà europea e il suo volto muterà.
La Repubblica 25.07.12