Può capitare che i falchi, quando esagerano, diventino avvoltoi. È successo ieri con il ministro tedesco dell’Economia, Philipp Roesler, che ha confermato e rafforzato le voci su un’imminente uscita della Grecia dall’euro. Roesler è un esponente del Partito liberale, alleato della Merkel e portavoce dell’ala oltranzista del governo tedesco in materia di politica monetaria. Le sue dichiarazioni riprendevano voci riportate dalla stampa di Berlino sull’intenzione del Fondo monetario internazionale di non rinnovare il prestito ad Atene. Le parole del ministro tedesco accelerano l’agonia della Grecia. La Troika arriverà solo domani ad Atene per valutare la situazione e discutere le proroghe chieste dal governo greco. Ma già si sa che gli ennesimi ritardi nel risanamento colpevolmente accumulati durante la doppia campagna elettorale difficilmente potranno essere colmati. E proprio l’altro ieri la Bce ha rifiutato di accettare i titoli greci come collaterale a garanzia di finanziamenti alle banche. Forse Roesler ha pensato di inserirsi nel braccio di ferro in corso tra Atene, che chiede nuove proroghe, e Bruxelles, che non le vuole concedere. Ma di fatto il suo intervento intempestivo contribuisce a spingere la Grecia fuori dalla moneta unica e dà un altro colpo di vanga alla fossa che in molti stanno scavando per l’euro.
Il problema è che l’Unione monetaria è arrivata alla battaglia finale. E la possibilità che possa perdere per strada pezzi minori, come la Grecia, sembra quasi secondaria rispetto al rischio di un naufragio collettivo che ormai incombe su tutte le capitali. Di fronte a questo rischio, la Banca centrale europea appare ormai come l’ultimo baluardo difensivo e il suo presidente, Mario Draghi, come l’unico generale in grado di guidare e rianimare un esercito logoro e sfiduciato di leader nazionali
che hanno inanellato una sconfitta dietro l’altra.
Nella sua più recente intervista, pubblicata ieri sul nostro giornale, Draghi lascia capire che la Bce è pronta ad intervenire «senza tabù» in difesa della moneta unica. Si tratta sicuramente di un avvertimento lanciato ai mercati sul fatto che un eventuale attacco al cuore dell’Eurozona è comunque destinato a fallire e che «l’euro è irreversibile». Ma il problema è di capire di quali strumenti disponga la Banca centrale e, soprattutto, quanto grande sia il margine di manovra di Draghi nel farvi ricorso.
Gli strumenti, almeno quelli utilizzati fino ad ora, sono di due tipi. Il primo è un intervento diretto sul mercato secondario dei titoli di Stato per acquistare bond dei Paesi sotto attacco. Il secondo è una nuova iniezione di liquidità alle banche per consentire loro di acquistare titoli sul mercato e ridurre in questo modo lo spread.
Il primo strumento, l’intervento diretto
sul mercato, è stato utilizzato anche dal predecessore di Draghi, Jean-Claude Trichet. Il problema è che la Bce, teoricamente, può fare solo interventi limitati e destinati a normalizzare le condizioni del mercato, mentre non può finanziare direttamente il debito pubblico di uno stato membro. Evidentemente la distinzione tra le due fattispecie è sottile e lascia ampio margine di interpretazione al board della Banca centrale. Che però su questo tema non è unanime. In passato gli acquisti sul mercato secondario si sono scontrati con una dura opposizione dei rappresentanti tedeschi che ha portato alle dimissioni in rapida successione di due di loro. E alla fine l’Istituto di Francoforte ha dovuto sospendere questo tipo di operazioni.
Il secondo strumento, la concessione di finanziamenti illimitati alle banche ad un tasso vantaggioso, ha già consentito a inizio anno di salvare la zona euro da una crisi del sistema bancario che l’avrebbe travolta. Tuttavia i suoi effetti sulla riduzione degli spread sono limitati da due fattori. Il primo è che la Bce, evidentemente, non può dire alle banche come utilizzare il denaro che viene loro prestato. Il secondo è che la logica delle agenzie di rating finisce con il penalizzare le banche che hanno acquistato titoli considerati a rischio perché estende agli istituti che posseggono tali titoli ogni taglio sul rating sei titoli stessi. La conseguenza è che le banche prendono denaro dalla Bce ma poi preferiscono investirlo in titoli più sicuri anche se meno redditizi, e dunque l’effetto calmiere ne risulta assai ridotto.
E’ quindi ragionevole immaginare che Draghi pensi piuttosto a riprendere interventi del primo tipo, con un acquisto diretto di titoli da parte della Banca centrale. A favore di questa tesi c’è il fatto che in agosto, con i mercati poco attivi, bastano interventi relativamente limitati per determinare forti fluttuazioni dello spread e dunque contare eventuali manovre speculative.
Tuttavia, anche su questo fronte, il presidente della Bce dovrà fare i conti con le forti resistenze interne. Non è un caso che ieri, nella sua infelice intervista, il ministro tedesco si sia scagliato contro ogni ipotesi di acquisto di titoli spagnoli da parte della Banca centrale. «Giù le mani dalla Bce», ammonisce Roesler. Un modo per dire che le mani, sulla Bce, se le vogliono tenere saldamente i falchi tedeschi, che con i loro veti si stanno sempre più trasformando in avvoltoi della moneta unica.
La Repubblica 23.07.12