Il killer «ha fallito, il popolo ha vinto». Il primo ministro norvegese Jens Stoltenberg ha aperto con questa frase la cerimonia di commemorativa dell’anniversario della strage di Oslo e Utoya dove 77 persone morirono per mano dell’estremista di destra Anders Behring Breivik. «La bomba e e le pallottole volevano cambiare la Norvegia. Ma il popolo norvegese ha risposto tenendo fede più che mai ai propri valori. Il killer ha fallito, il popolo ha vinto», ha detto Stoltenberg a Oslo.
Sarà un tuffo nell’orrore per ogni norvegese la commemorazione delle stragi di Oslo e Utoya che lunedì, ad un anno esatto di distanza, il Paese scandinavo ha deciso di dedicare alle vittime dell’estremista di destra Anders Behring Breivik. Sarà una nuova dolorosa immersione nell’attacco più sanguinoso al cuore della Norvegia (la sua capitale e la sua gioventù) dalla fine della Seconda Guerra mondiale, ma sarà anche un’occasione per fare i conti con se stessa e con la sua concezione della democrazia.
Un anno fa Breivik, 32 anni, cresciuto in solitudine nell’odio contro l’altro – soprattutto se l’altro è musulmano – deciso a impedire che «nel giro di pochi anni non vi fosse più una sola ragazza norvegese bionda» come lui stesso ha detto al processo terminato il 24 giugno, piazzò 950 kg di esplosivo davanti al palazzo del governo nel pieno centro di Oslo. Poi, accertatosi che i suoi obiettivi più ambiziosi si erano salvati, nonostante la morte di otto passanti e il ferimento di altre decine, si rivolse verso il secondo target della sua impresa bellica: l’isola di Utoya che ospitava in quei giorni 600 giovani laburisti. Mentre Breivik si armava di mitra e sventagliava all’impazzata contro chiunque si trovasse sulla sua strada, sul suo sito internet 1.500 pagine di deliranti proposizioni a sfondo nazista e razzista facevano il giro del mondo. Sull’isola, circondata dalle cupe acque del nord tra scogli e anfratti, Breivik stanò decine di ‘marxistì. Sessantanove morti e centinaia di feriti è il bilancio del massacro, un decimo dei presenti. Poi freddo, pallido, il sorriso beffardo perennemente stampato sul viso, si fece platealmente arrestare. Di lui, il mondo ricevette l’immagine di uno dei molti killer solitari che, come oggi a Denver, può annidarsi ovunque, un cinema scintillante per una prima, o una cameretta da ragazzo con la porta sempre chiusa.
Del resto il giallista Jo Nesbo è arrivato a paragonare la sua Oslo ad una Gotham City scandinava. In questo anno la stampa norvegese si è occupata molto di Breivik e del suo comportamento al processo iniziato il 16 aprile, soprattutto per dar conto del dilemma relativo alla sanità mentale dell’assassino: l’uomo che, vestito di nero, alza il pugno al cielo e esclama «L’ho fatto per voi, sono sano e non sono pentito», è pazzo o no? La sentenza è prevista per il 24 agosto, ma ciò che agita ora il dibattito nel Paese è sapere se la Norvegia del dopo Breivik è cambiata, se è spaventata come all’indomani della strage, se si è fatta sedurre da pensieri e da atteggiamenti di chiusura e intransigenza. O se – come disse subito il primo ministro Jens Stoltemberg: «Reagiremo con più democrazia e umanità» – la parola d’ordine resterà ‘aperturà. Bjoern Ihler, un giovane laburista sopravvissuto, ha detto alla France Presse che anche «gli estremisti devono avere voce in capitolo per evitare che si rifugino nella clandestinità…dopo gli attacchi avevano promesso maggiore apertura, e quindi ciascuno dovrà poter esprimere le proprie idee, anche se estreme… Chi lo pensa può anche criticare l’immigrazione senza per forza essere associato alle stragi del 22 luglio».
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