Il giovane americano “normale” che si arma fino ai denti e fa strage di innocenti è una figura ormai tragicamente classica della cronaca nera. Ma così come nessuno ricorda niente, o quasi, degli autori delle stragi di Austin, o di Columbine, o di Fort Hood (non il nome, non il volto, non una qualche specifica vocazione al male), presto nessuno ricorderà niente di questo James Holmes, che si è accanito contro una folla di ragazzi e bambini a Denver, Colorado.
L’anonimato — l’implacabile anonimato che la società dello spettacolo ha trasformato nella più definitiva, nella più insopportabile delle colpe — è l’ingrediente più vistoso di queste orribili mattanze. È il solo tratto comune tra le povere vittime e il loro carnefice, un essere umano impazzito o marcito nel bozzolo infetto della porta accanto, dove ha progettato per mesi o magari per anni, come via d’uscita dalla sua nullità, un tiro a segno da record. L’appuntamento è dentro un cinema, in un supermercato, in una scuola, dovunque si concentrino tante sagome umane quante ne bastano a scaricare le provviste di piombo accumulate con l’accanimento del maniaco, con il fervore malato del feticista. La folla come bersaglio perché è nella folla che si teme di annegare, di sparire per sempre. Sul mito del Grande Tiratore (vedi il beffardo romanzo omonimo di Kurt Vonnegut) è costruita l’epopea degli Stati Uniti, migliaia di chilometri di territorio sono stati conquistati e quasi tracciati dagli spari (una successione di spari che va da Costa a Costa), migliaia di chilometri di pellicola li hanno celebrati. Finita ormai da parecchie generazioni l’epopea della Frontiera, il culto delle armi ristagna, malsano e involgarito, nei cassetti di casa, nei bauli dei fuoristrada, nelle pullulanti armerie che hanno imbottito l’America di quasi mezzo miliardo di armi da fuoco private, quasi due per ogni abitante compresi i neonati e compresi i pacifici e i disarmati, e le femmine che di questa malattia maschile sono quasi sempre infermiere impotenti. Parodia dei cow-boys che puntavano il fucile verso il ciglio sconosciuto delle praterie, anziani maschi ottusi o scellerati (sempre Vonnegut li chiamava: vecchi porci) difendono il diritto a tenere la mano sul calcio di una pistola, e capeggiano lobbies così potenti che nessuna amministrazione, Obama compreso, osa mettere un freno a questo incessante riarmo privato.
E poi, si sa, c’è la febbrile moltiplicazione tecnologica e mediatica di tutto: spari compresi. Neurologia, sociologia, psichiatria non danno risposte certe, nessuno sa se esiste un nesso verificabile tra la crescita esponenziale della violenza virtuale, dei games di sterminio, dei film violenti, e l’aumento delle persone violente. Ma almeno un dato certo, indiscutibile, lo abbiamo: la morte violenta, già potentemente riprodotta e diffusa da cinema e televisione, diventa, di generazione in generazione, un’immagine sempre più familiare, domestica, normale. Ovunque sagome umane da crivellare, puro score per l’abilità del tiratore. Ovunque un obiettivo da raggiungere liberandosi di nugoli di intrusi, e anche videogame “per famiglia”, che hanno lo stesso crisma di innocente divertimento di un gioco di carte o da tavolo, prevedono la morte degli altri come i gradini della scala che conduce alla vittoria.
Se il sesso, pur nella progressiva liberalizzazione di ogni cosa, conserva almeno qualche caratteristica del tabù, e svariati “parental control” e password tentano di confinarlo entro i suoi recinti, la morte violenta no, è arredo quotidiano, è gioco per bambini, è diffusione “in chiaro”. Scorre come acqua anche il sangue. Si tende a nascondere il corpo umano che rantola di piacere, ma non esistono pecette che coprano il corpo umano che rantola di dolore, e muore ammazzato. Forse non sapremo mai che cosa ha guastato la vita, e la testa, di James Holmes e degli stragisti “senza movente” come lui. Di certo, sappiamo che le armi, gli spari, le sagome umane da colpire e cancellare, l’altro da eliminare per liberare la strada, sono moneta corrente, appena spiccioli, nel loro mondo compreso tra una stanza chiusa e un video acceso.
La Repubblica 22.07.12