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"Quella parola che fa paura", di Andrea Bonanni

Il contagio prosegue, avverte Mario Monti. La tempesta d’agosto, tanto temuta e largamente preannunciata, si sta addensando sul capo degli europei e della loro moneta. È a suo modo una tempesta perfetta perché allinea tutti i possibili fattori negativi e li fa interagire così che si rafforzino l’un con l’altro. LA CRISI dei titoli di debito sovrano aggrava la crisi delle banche che li hanno acquistati. La crisi delle banche costringe i governi a versare denaro pubblico per salvarle (4.500 miliardi fino al 2011) aumentando così i propri debiti. Il rigore nei conti pubblici imposto dai debiti crescenti alimenta la recessione. La recessione rende più difficile raggiungere gli obiettivi di risanamento delle finanze statali costringendo a nuovi tagli e nuove tasse. I tagli alla spesa creano malcontento, disordini, instabilità politica. L’instabilità politica aumenta la sfiducia nella capacità dei governi di far fronte alla situazione. La sfiducia provoca una fuga degli investitori dai titoli dei Paesi più esposti. La fuga degli investitori fa salire gli interessi e aumenta i costi del servizio del debito a carico dei contribuenti. Apparentemente non c’è via di uscita da un meccanismo di contagio che, come nelle epidemie, si autoalimenta crescendo in modo esponenziale.
Il vero problema, però, non è la tempesta. È la barca su cui la stiamo affrontando. E la barca dell’euro fa acqua da tutte le parti. Gli americani hanno dovuto far fronte alla crisi dei mercati finanziari prima di noi. Ma lo hanno fatto a bordo di una corazzata che si chiama dollaro, spinta dal motore della più potente democrazia e del più coeso degli Stati federali del pianeta.
Senza quella corazzata, oggi la California e almeno una decina di altri stati sarebbero in bancarotta. Invece il bilancio federale americano ha un debito quasi doppio rispetto a quello europeo, ma continua a navigare maestoso sui mercati senza neppure sentire l’assalto delle onde.
Sulla fragile caravella dell’euro, purtroppo, tutto quello che è stato fatto in questi due anni è cercare di gonfiare possibili salvagenti. Salvagenti collettivi, come il vecchio fondo salva-Stati, l’Efsf, e quello nuovo, l’Esm, che la Corte suprema tedesca potrebbe bucare prima ancora che entri in acqua. Oppure salvagenti individuali, con i governi che stampano segretamente le vecchie banconote nazionali. Con la Finlandia che chiede garanzia tangibili per concedere la propria quota (minima) di prestiti europei alla Grecia o alla Spagna. Con alcune cancellerie sempre più attratte dall’idea demenziale di un doppio euro: una moneta forte per i Paesi ricchi e una debole per quelli più poveri. Ma il doppio euro, oggi, è già una realtà di fatto se metà degli europei pagano lo stesso denaro tre volte più caro dell’altra metà.
Ed è un doppio euro cannibale, che premia i forti a spese dei deboli, e quindi contribuisce ad aumentare le divergenze già enfatizzate dalle politiche draconiane di austerità.
Per quasi tre anni gli europei sono rimasti paralizzati dal contrasto tra quanti chiedevano di mettere i debiti in comune e di fare della Bce il prestatore di ultima istanza, come nel caso della Fed americana, e i «falchi» che lamentavano (a ragione) il mancato rispetto delle regole comuni e pretendevano che la situazione si potesse risolvere solo con più disciplina. Finalmente, a primavera, sotto l’impulso del presidente della Bce Mario Draghi, è emersa la soluzione di compromesso che potrebbe, in teoria, salvare la moneta unica. La soluzione prevede un percorso per mettere in comune la sovranità sui bilanci nazionali, trasferendo a livello europeo anche la necessaria legittimità democratica di controllo, in cambio di una federalizzazione del debito. Questa soluzione, decisa in linea di principio al vertice di giugno e su cui le cancellerie stanno già febbrilmente trattando in gran segreto, metterebbe l’euro al riparo dei mercati tanto quanto lo sono il dollaro o lo yen. Ma è una soluzione che richiede tempo. E il tempo, ormai, è proprio quello che manca all’Europa. Perché la tempesta finanziaria perfetta, al contrario delle tempeste naturali, purtroppo ha occhi, orecchie e cervello. E sa quando è arrivato il momento di colpire prima che le navi raggiungano un porto sicuro.
In questo quadro, il dato più allarmante non è più economico ma politico. Non è tanto la lievitazione inarrestabile degli spread, quanto il tono dei dibattiti parlamentari che in Germania, in Finlandia e, diciamocelo, anche in Italia, accompagna le difficili scelte che i governi devono fare in sede europea. Rispetto alla media dei suoi deputati, Angela Merkel fa paradossalmente la figura di una eroina della causa europea. L’opinione pubblica tedesca non vuole neppure il salvataggio delle banche spagnole, anche se il loro naufragio significherebbe l’affondamento di quelle tedesche. Un po’ dovunque, il dibattito politico ha raggiunto livelli di irrazionalità e di incompetenza che lasciano poche speranze. E se perfino la cancelliera, che comunque si trova al timone della barca nella tempesta, dice si «non essere certa» della riuscita del progetto politico europeo, non si può certo criticare i topi che hanno già cominciato ad abbandonare le stive portando i capitali dove pensano siano più sicuri. Guardacaso, in Germania.

La Repubblica 21.07.12