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"L'uomo della pianura", di Dario Franceschini

La piccola stazione era sempre pulita e ordinata. Per arrivare ai binari si attraversava l’androne, con la biglietteria su un lato e l’orario dei treni attaccato sul muro opposto, dietro le due panche di legno che servivano da sala d’attesa.
La ferrovia passava un po’ lontana dal centro del paese, perché il ponte sul Reno l’avevano costruito in un punto dove il fiume era più stretto e così, per raggiungerla, si era dovuta fare una strada lunga e diritta, costeggiata da due filari di pioppi che tagliavano la pianura.
Ogni mattino presto, d’estate e d’inverno, Udilio Cesari la percorreva lentamente, appoggiandosi al bastone. Andava sul marciapiede del primo binario, entrando dal cancelletto di fianco all’edificio, senza mai attraversare l’androne della biglietteria.
Poi raggiungeva una vecchia panchina di legno verde accostata al muro della stazione, la puliva appena con un fazzoletto e si sedeva.
«Pensa di certo ai suoi anni in America», mormoravano i paesani in attesa dei treni. Stava appoggiato con le mani sul bastone davanti a sè, con lo sguardo fisso per ore sulla campagna oltre i binari, come se quello sfondo gli servisse solamente per proiettare il film che stava scorrendo dietro i suoi occhi.
A differenza di tutti gli altri emigranti che dal giorno del ritorno in paese non avevano mai smesso di raccontare, davanti al bar, le cose, ogni volta sempre più prodigiose, che avevano visto nel nuovo mondo, Cesari non aveva mai detto una parola con nessuno sulla sua vita laggiù in America.

Almeno nei primi tempi rispondeva ai saluti dei vecchi amici o a quelli dei loro nipoti che gli passavano davanti, quando scendevano dai treni pieni di studenti di ritorno dalle scuole di città, ma poi aveva smesso anche di rispondere.
Stava solamente lì, fermo sulla sua panchina tutto il giorno, sino al tramonto, a guardare la pianura calma e infinita e i treni lenti che gliela nascondevano per qualche attimo.
La notte del 20 maggio, alle quattro del mattino, il capostazione si alzò dal letto quando sentì il cigolio del cancelletto di ferro che si apriva. «I soliti quattro cretini ubriachi», pensò.
Si avvicinò alla finestra della piccola casa di fianco alla stazione per aprire gli scuretti e cacciarli con un urlo minaccioso. Dall’alto vide invece Cesari, seduto sulla sua panchina e si domandò perché mai fosse venuto in piena notte, come in tanti anni non aveva mai fatto.

«Cesari, non passano treni a quest’ora!» gli gridò, sapendo già che lui non avrebbe risposto nemmeno con un cenno del capo. Si soffermò a guardarlo nel buio, nella sua posizione di sempre, con le mani appoggiate al bastone.
D’improvviso sentì un boato squarciare il silenzio, come salisse dalle viscere della pianura e poi attorno a lui tutto iniziò a vibrare e a spaccarsi in un frastuono di rumori sconosciuti.
Corse giù per le scale rischiando di cadere, aprì la porta che dava sul marciapiede del binario, uscì e vide a pochi metri da lui la sua stazione che si apriva, sventrata dalla forza antica della terra che si era risvegliata. La guardò accasciarsi come fosse di carta, dentro una nube di polvere bianca nel nero della notte.
Poi di colpo tutto tornò fermo come sempre e lui vide che Udilio Cesari stava ancora lì, immobile sulla panchina. Ma alle sue spalle, dove c’era la stazione, adesso si intravedeva nell’oscurità solo un cumulo di macerie e la linea lontanissima dell’orizzonte, oltre il silenzio dei campi di grano e dei frutteti.
La seguì con lo sguardo, girando il capo. «Ora ha di nuovo soltanto pianura attorno a lui, pensò.

l’Unità 19.07.12