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"Sono gli operai i nuovi poveri", di Chiara Saraceno

Non è solo la “solita” fotografia della povertà quella che emerge dagli ultimi dati. C’è un allarme ulteriore accanto al dato noto, e sconfortante, della persistenza, ed accentuazione, del divario tra Centro-Nord e Mezzogiorno Oltre alla maggiore vulnerabilità delle famiglie numerose, e di quelle in cui tutte le persone in età da lavoro sono inoccupate, vi sono segnali di preoccupazione ulteriore come conseguenza del modo selettivo con cui sta colpendo la crisi occupazionale.
Il primo è l’aumento della povertà tra le famiglie con persona di riferimento operaia o comunque a bassa qualifica. Anche quando il lavoro non è stato perso, la riduzione della possibilità di aumentare il reddito facendo straordinari, o la cassa integrazione più o meno temporanea, hanno colpito duramente il reddito degli operai, già dall’inflazione, riducendone la capacità di far fronte ai bisogni di tutta la famiglia. Allo stesso tempo, come segnalano anche i dati sul mercato del lavoro, è diminuito, per lo più in queste stesse famiglie, il numero di percettori di reddito. Molte mogli-madri hanno perso il lavoro o sono costrette involontariamente al lavoro a tempo parziale. E i giovani figli e figlie spesso non riescono neppure ad avere una occupazione. Non ci si può sorprendere che una quota di queste famiglie non ce la faccia più a galleggiare al di sopra della linea di povertà relativa e che qualcuna precipiti anche nella povertà assoluta. La percentuale di famiglie in cui un solo reddito da lavoro deve sostenere (anche) il peso di almeno una persona in cerca di lavoro è infatti raddoppiata dal 2007 al 2011, passando dal 5,5% all’11,5%.
La diminuzione del numero di percettori di reddito in famiglia, in particolare delle moglimadri occupate, spiega anche il secondo fenomeno allarmante: l’aumento delle famiglie in cui la presenza di anche un solo figlio minore fa cadere in povertà. Questo aumento è stato particolarmente vistoso – quasi tre punti percentuali in un solo anno, tra il 2010 e il 2011 – nelle regioni del Centro, anche se in queste stesse regioni rimane ancora al di sotto della media nazionale. La disoccupazione, o inattività più o meno forzata, delle madri causata dalla crisi occupazionale, unita alle crescenti difficoltà che le madri lavoratrici incontrano nel conciliare famiglia e lavoro a causa della riduzione e aumento dei costi di servizi già insufficienti, sta minando alle basi la principale protezione dalla povertà dei bambini, specie nelle famiglie a reddito modesto: appunto, l’occupazione e il reddito da lavoro delle madri.
Di conseguenza, terzo fenomeno allarmante, la povertà minorile, che da anni aveva raggiunto percentuali problematiche, anche se non sufficientemente messe a fuoco nell’agenda politica, è destinata ad aumentare ancora, con conseguenze negative di lungo periodo innanzitutto per i minori coinvolti, ma anche per la società nel suo complesso. Il rischio è infatti di disperdere il capitale umano di una grossa fetta, circa un quarto, delle nuove generazioni, già molto ridotte demograficamente. È tra questi minori poveri, specie tra le ragazze, che si concentrano o si concentreranno in futuro i poveri.

La Repubblica 18.07.12

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«LA FAMIGLIA COME WELFARE ALTERNATIVO NON REGGE PIÙ», di Chiara Saraceno

La famiglia, grande ammortizzatore sociale nel nostro Paese, non ce la fa più a reggere il peso, i redditi modesti diventano sempre più vulnerabili, e a vederla in prospettiva la situazione non sta affatto migliorando».

Però l’Istat parla di una sostanziale stabilità della povertà relativa. «I problemi di fondo restano gli stessi, ma stavolta ci sono alcuni segnali ancora più preoccupanti». La sociologa Chiara Saraceno analizza il rapporto Istat 2011 sulla povertà in Italia: 8 milioni di persone povere, tre quarti delle quali risiedono al Sud, mentre il 7,6% delle famiglie vive appena sopra la soglia critica, col rischio di scivolare per una qualsiasi spesa imprevista.

Quali sono i segnali più preoccupanti? «Il fatto che la povertà sia in aumento anche tra le famiglie con uno o due figli, quindi non solo tra quelle più numerose. E soprattutto che sia peggiorata la situazione delle famiglie in cui il reddito di riferimento peggio ancora, l’unico è operaio. Gli operai, insomma, sono sempre meno in grado di far fronte ai costi familiari: per colpa dell’inflazione e dell’effettiva riduzione del reddito, che deve spesso fare i conti con la cassa integrazione e con l’impossibilità di integrare con gli straordinari. In più, moglie e figli nel mercato del lavoro non riescono proprio ad entrarci, il che significa che non c’è più compensazione, né integrazione, come invece accadeva più diffusamente fino ad un paio di anni fa. Adesso anche il principale percettore di reddito arranca. Fanno più fatica in generale i lavoratori dipendenti, inclusa una buona quota di autonomi».

Le famiglie a reddito modesto, insomma,non ce la fanno più: o sono già povere, o rischiano di diventarlo. «Di sicuro, non possiamo continuare a pensare che “tanto ci pensa la famiglia”, che il reddito scarso o intermittente dei giovani venga integrato con quello degli adulti. Di converso, chi ha migliorato in termini relativi la propria situazione sono i pensionati: non che si siano arricchiti, ovvio, è solo perché possono contare su un reddito fisso, sicuro. Il problema è che tutta questa situazione rischia solo di peggiorare».

È la tendenza ad essere negativa,insomma. «Esatto. Perché il mercato del lavoro non sta migliorando, anzi: i dati dei due trimestri 2012 non sono affatto rosei, peggiora la situazione dei giovani, che ovviamente sempre meno si possono permettere di uscire di casa, aumenta la cassa integrazione, i salari non crescono, le donne fanno sempre più fatica, e i servizi si vanno riducendo».

Itagli alla sanità (enonsolo)previsti dalla spending review non aiutano. «Rischiamo l’effetto avvitamento: più donne quelle in famiglie con reddito modesto costrette a casa per il lavoro di cura. Poveri sempre più poveri, insomma. Se spending review si traduce nel tagliare i servizi, invece che gli sprechi, significa che si sta selezionando chi può rivolgersi al privato e chi no».

Ma la riforma del mercato del lavoro non doveva agevolare i giovani?«Chiamiamola con il suo nome: quella è una, parziale, riforma degli ammortizzatori sociali per costruire protezioni più adeguate per chi non ne aveva affatto. Ma non fa sviluppo, né crescita, né aiuta a creare e aumentare il lavoro per nessuno. L’hanno enfatizzata come soluzione alla scarsa flessibilità, ma non è certo quello il problema del lavoro».

Una situazione sociale che si fa insostenibile: come arginarla? «Io sono sempre molto perplessa quando vedo che tutta la spesa sociale viene considerata improduttiva. E credo che nel capitolo investimenti vadano considerati anche l’istruzione e i servizi, intesi come infrastrutture sociali. Bisognerebbe fare come col Fondo sociale europeo per il Mezzogiorno: sono investimenti in capitale umano, in coesione sociale, in una società un po’ più equa. In una parola, nel futuro. E, tra i molti, un comparto produttivo cui mettere mano è senza dubbio il turismo: se ci superano Grecia e Spagna è perché il nostro è troppo costoso e non di eccelsa qualità».

l’Unità 18.07.12