Quando i Taliban distrussero le due grandi statue del Buddha nella valle di Swat, a nord-est dell’Afghanistan, tutta l’emozione del mondo civile non bastò a fermare quell’impresa criminale, perpetrata in nome dell’Islam. È facile immaginare il piacere provato da quei pericolosi ignoranti per aver fatto esplodere una statua alta più di 40 metri, che risaliva a 1300 anni fa. Le nevrosi e le frustrazioni covano a volte nelle profondità nell’inconscio, per esplodere un giorno devastando il frutto di secoli di civiltà.
Oggi altri barbari attaccano i mausolei di Timbuctù, e minacciano
di bruciare un tesoro di rari e magnifici manoscritti.
La peggiore nemica dell’uomo è l’ignoranza, soprattutto quando è arrogante e soddisfatta. Siamo in presenza di criminali che nulla potrà fermare, se non l’uso di una forza brutale quanto la loro stupidità.
I principi democratici privilegiano la legge e il diritto. Ma come contrapporre la giustizia a tanto fanatismo? Come può un discorso razionale aver ragione di sedicenti convinzioni religiose?
Per trovare l’origine di quest’ideologia che si accanisce contro i santi e le statue dobbiamo risalire al XVIII secolo, quando un teologo di nome Mohamed Abdel Wahab scrisse una serie di testi per la pratica di un islam puro e duro: testi che dovevano essere interpretati alla lettera, o in altri termini, in maniera fanatica, chiusa e violenta. Quest’ideologia ha dato vita a un rito denominato
“wahabismo”, adottato dall’Arabia Saudita, dal Qatar e da altri Paesi del Golfo: un rito che impone la sharia e l’applicazione rigorosa di regole e leggi efferate: lapidazione delle adultere, taglio delle mani ai ladri, esecuzione degli apostati sulla pubblica piazza ecc.
I Paesi del Maghreb si sono sottratti a questo rito. Ma in Algeria, quando in seguito alle elezioni del 1991 le autorità hanno deciso l’esclusione del Fis (partito del Fronte Islamico della salvezza), è esplosa una guerra civile: gli islamisti, privati della loro vittoria elettorale, hanno scatenato una jihad contro lo Stato e chiunque lo sostenesse, costata più di centomila morti.
Alcuni di questi islamisti si erano formati nelle scuole wahabite dell’Arabia Saudita. Uno dei loro primi misfatti è stata
la distruzione dei marabout che ospitavano i santi venerati dal popolo: difatti il wahabismo li vieta, al pari dei mausolei e delle statue, argomentando che non devono esistere intermediari tra il credente e Allah. Unica eccezione: il profeta Maometto; tutti gli altri sono usurpatori. «Haram, haram!» (è proibito!) gridavano i distruttori a Timbuctù. E avevano torto, poiché ciò che l’Islam condanna è adorare idoli di pietra e confondere il Dio unico con altre divinità. L’Islam ortodosso, al pari dell’ebraismo, proibisce queste forme di culto, a volte misteriose. Ma per queste due
religioni monoteiste i marabout sono solo un retaggio dell’epoca pagana; si tratta in realtà di usanze che non hanno alcuna conseguenza sulla fede. Ogni città, ogni villaggio ha il suo santo. Perciò distruggere il suo mausoleo è un atto di stupidità. Le loro statue sono opere d’arte: un patrimonio che i turisti vengono a visitare da ogni parte del mondo.
In Marocco si contano 652 santi, di cui 221 ebrei e 26 donne, ciascuna delle quali ha pure il suo mausoleo. Centoventisei di questi santi sono venerati da ebrei e musulmani. Ogni anno si organizzano pellegrinaggi in loro onore, e sono celebrati dagli ebrei del mondo intero.
In Marocco come nel Mali, in Algeria o in Tunisia, la gente ama “confidarsi” col proprio santo. Sarà superstizione, lontana da ogni razionalità scientifica; ma da sempre il Marocco ha consentito alla sua popolazione di partecipare a questo tipo di devozione, che fa parte della sua cultura popolare.
I distruttori oggi all’opera in Mali non sono gente di cultura. Si tratta di militanti, che avranno anche imparato il Corano a memoria, ma non l’hanno assolutamente compreso. È però il caso di ricordare che dietro questa barbarie c’ è il wahabismo, sostenuto dagli Stati e dai movimenti salafisti, che oggi minacciano rivoluzioni come quelle della Tunisia e dell’Egitto.
Traduzione di Elisabetta Horvat
La repubblica 11.07.12