Il nome in codice era «Giacimenti culturali». E ancora oggi rimane un dubbio. Al progetto di catalogazione del patrimonio artistico e monumentale italiano avevano dato quel nome consapevoli che si stava parlando del nostro petrolio, o perché sapevano che l’operazione si sarebbe rivelata una miniera d’oro per società di informatica private? Le tracce di tutti quei soldi (2.110 miliardi di lire, pari a circa 2,1 miliardi di euro di oggi) stanziati a partire dal 1986 (al governo c’era Bettino Craxi) si sono ormai perse. Ventisei anni dopo resta un’amara considerazione della Corte dei conti, rintracciabile a pagina 310 della memoria del procuratore generale Salvatore Nottola al giudizio sul rendiconto dello Stato approvato il 28 giugno: «Nonostante vari tentativi di giungere a una stima attendibile dei beni culturali, non esiste oggi una catalogazione definitiva specie per i reperti archeologici. Inoltre, per i grandi musei statali non esiste una stima del valore delle opere possedute». Molte delle quali, fra l’altro, restano chiuse nei magazzini. Un caso? Il museo più visitato d’Italia, e uno dei più frequentati del mondo, considerando il numero dei turisti in rapporto alla superficie. Ovvero, la Galleria degli Uffizi di Firenze. Ricorda però il giudice contabile Francesco D’Amaro, autore del capitolo sui beni culturali della memoria di Nottola, che il museo fiorentino espone al pubblico 1.835 opere mentre «ne conserva in deposito circa 2.300, offrendo in visione solo il 44%» di quelle possedute. Problemi di spazi espositivi, ma non soltanto. E dire che gli Uffizi, secondo uno studio di The European house Ambrosetti, hanno una quantità di visitatori per metro quadrato quattro volte maggiore del Louvre (45,8 contro 11,8). Anche se i numeri assoluti non sono certo confrontabili con quelli del museo parigino. L’anno scorso la Galleria degli Uffizi ha staccato un milione 369.300 biglietti, a cui si sono aggiunti 397.392 ingressi gratuiti. Incasso: 8,6 milioni di euro. Al Louvre sono entrati invece in più di 8 milioni, per un introito superiore a 40 milioni.
C’è chi dice che il nostro è un problema di abbondanza. Troppi beni architettonici, troppi siti archeologici, troppe opere d’arte da tutelare. Dice sempre la Corte dei conti che abbiamo 3.430 musei, di cui 409 in Toscana, 380 in Emilia-Romagna, 346 in Lombardia, 302 nel Lazio. Poi ci sono 216 siti archeologici, 10 mila chiese, 1.500 monasteri, 40 mila fra castelli, torri e rocche, 30 mila dimore storiche, 4 mila giardini, 1.000 centri storici importanti… A tutta questa roba si devono aggiungere i 4.381 immobili del demanio storico artistico che sono utilizzati come uffici pubblici. E di quelli, almeno, si conosce il valore esatto. Sono a libro per 16 miliardi 697 milioni 86.283 euro. Ovvio che tutto questo immenso patrimonio sia complicato da gestire. E che responsabilità nei confronti del resto del mondo, se si considera che l’Italia ha il maggior numero di beni tutelati dall’Unesco come patrimoni dell’umanità: 45 su 911.
Ma il modo in cui trattiamo tutto questo ben di Dio è comunque sconfortante. A cominciare dalla «diffusa perdurante carenza dello stato di manutenzione delle aree archeologiche, spesso oggetto di gestioni commissariali con possibilità di deroga rispetto all’ordinaria amministrazione, che determinano», sono parole della Corte dei conti, «poca trasparenza nelle procedure di spesa». Un chiaro riferimento alla vicenda del commissariamento di Pompei, che era stato già bombardato di critiche dalla stessa magistratura contabile. Ma i giudici, dopo aver concesso che causa di tale situazione sono anche i tagli al personale e alle risorse destinate alla manutenzione decisi dal ministero dell’Economia, non risparmiano nemmeno alcune soprintendenze, quando sottolineano «una certa incapacità di spesa degli organi periferici del ministero dei Beni culturali, che ha generato la formazione di una consistente giacenza di cassa, sia pure in parte determinata dalla lentezza delle procedure di gara e dal ritardo nell’accreditamento dei fondi statali». Vero è che quando si devono fare le nozze con i fichi secchi non è sempre facile. I fondi pubblici per i beni artistici e culturali sono ormai ridotti al lumicino: la Corte dei conti segnala che si è scesi allo 0,19% della spesa pubblica, contro lo 0,34% di «pochi anni fa» e lo 0,21% del 2010. Questo mentre lo stato francese ha un budget cinque volte superiore al nostro (oltre 7 miliardi di euro contro 1,4 miliardi) e la Germania ha aumentato quest’anno gli stanziamenti del 7 per cento. Non bastasse, se il dicastero del Collegio romano era stato risparmiato dai tagli «lineari» decisi dalle ultime manovre di Giulio Tremonti, ci ha pensato il governo di Mario Monti a pareggiare i conti con gli altri ministeri. Dirottando alle carceri 57 dei 140 milioni dell’8 per mille destinati ai beni culturali con il decreto sull’emergenza delle prigioni approvato in fretta e furia alla vigilia di Natale del 2011.
Un giro di vite al quale non si è rimediato neppure in seguito. A dispetto delle dichiarazioni ufficiali. Da quando esiste il dicastero dei Beni culturali non c’è mai stato un ministro che non abbia detto pubblicamente come l’attuale, Lorenzo Ornaghi, «la cultura deve agire come volano reale per la crescita». Ma la verità è probabilmente quella che si è fatta sfuggire il segretario generale del ministero Roberto Cecchi qualche mese fa, prima di essere nominato sottosegretario: «In Italia la cultura non è vista come uno strumento per lo sviluppo del Paese. Ci s’inalbera contro il vandalismo, come contro i musei che non sono perfettamente all’altezza della situazione. Ma poi quando si tratta di investire, non si investe».
Regola osservata anche in questa occasione. Nel decreto sviluppo appena sfornato dal governo Monti, non c’è traccia di interventi per i beni culturali e il turismo.
Il Corriere della Sera 09.08.12