La tragica notte della Diaz è di quelle che segnano la memoria di una generazione. La vita di chi c’era ma anche di quanti, davanti alla tv o al pc, assistettero impotenti a quella brutale violenza di Stato e alla manipolazione propagandistica dei giorni successivi da parte dell’allora premier Berlusconi e del ministro Scajola. Iragazzi e le ragazze vittime di quella feroce prepotenza hanno finalmente trovato giustizia: soltanto undici anni dopo, però, ora che sono diventati uomini e donne e le ferite di quella notte si sono rimarginate, ma non le cicatrici che bruciano ancora. Di recente un film di Daniele Vicari, fedelmente tratto dagli atti processuali, ha riportato alla memoria la macelleria di quei giorni, le ore sudamericane che toccarono in sorte alla Genova civile e antifascista del luglio 2001, ma tra il pubblico ha prevalso un sentimento di estraniamento: è possibile che tutto questo è stato? E se è vero che è andata così, io dove ero e cosa facevo quando ciò avveniva?
Dei fatti della scuola Diaz, come di quelli della caserma di Bolzaneto, non contano soltanto il dolore e la violenza subita dalle vittime, ma la facilità con cui scattò una sorta di trappola totalitaria: le forze dell’ordine, consapevoli degli abusi commessi, che fabbricarono prove false per giustificare agli occhi dell’opinione pubblica l’assalto, la propaganda asciugacervelli del premier e delle sue televisioni, la sospensione della legge, la consapevolezza dell’impunità, la coscienza che si poteva allentare il freno perché ci sarebbero state tolleranza e protezione da parte del governo. Una trappola scattata come una tagliola che leva il respiro lasciandoti impotente, come se determinati marchingegni e dispositivi culturali avessero continuato a funzionare silenziosamente, una generazione dopo l’altra, dai tempi del fascismo a quelli della lotta al terrorismo negli anni Settanta. Reperti archeologici ancora affilati ed efficaci, pronti a colpire nel 2001 approfittando dell’impreparazione delle forze politiche e dell’apatia della società civile.
Ma i fatti della Diaz ricordano anche un’altra amara verità. Questi undici anni sono passati malamente un po’ per tutti, come se ciascuno avesse preferito fuggire da quella brutta notte. I partiti non hanno avuto il coraggio di aprire un’inchiesta parlamentare per acclarare non solo le responsabilità delle forze dell’ordine, ma anche quelle del governo. Ed è ancora più grave che nessuna figura istituzionale abbia avvertito in questo periodo l’esigenza di chiedere ufficialmente scusa alle vittime di quella violenza, un atto doveroso, a prescindere dalla questione della responsabilità penale dei singoli. La polizia, per bocca del suo massimo vertice, ha assicurato, in una lettera indirizzata nel 2008 a questo giornale, che si sarebbe mossa «nelle sedi istituzionali e costituzionali» per rispondere all’esigenza del Paese di avere spiegazioni su quel che è realmente accaduto a Genova. In questi quattro anni nulla è avvenuto ed è auspicabile che la sentenza di ieri possa finalmente rappresentare la svolta tanto attesa. Resta il dato di fatto che in questi undici anni gli imputati di allora, oggi condannati, hanno proseguito la loro carriera, passando da una promozione all’altra. In ogni caso la sentenza della Quinta sezione penale della Cassazione è importante perché accoglie l’impianto colpevolista dell’appello e cancella la lettura sostanzialmente assolutoria consegnata dalla sentenza di primo grado. Si tratta di un ventaglio di reati gravi per un tutore dell’ordine: dall’arresto arbitrario alla calunnia, dal falso aggravato alle lesioni. Non ci saranno pene detentive, ma è rilevante che per i colpevoli sia scattata l’interdizione dai pubblici uffici per cinque anni. Sono stati prescritti, invece, i reati di lesioni gravi contestati a nove agenti appartenenti al settimo nucleo speciale della Mobile, e quindi per loro non ci sarà neppure la pena accessoria dell’interdizione. Su questo punto resta l’amaro in bocca perché non bisogna dimenticare che la prescrizione estingue il reato, ma non cancella i fatti, ed è figlia, in questo caso giuridicamente degenere, della lentezza del processo.
Diaz è stata insieme con Bolzaneto la «più grande sospensione dei diritti democratici in un Paese occidentale», secondo la definizione di Amnesty International, perché tutto è avvenuto con furia cieca e selettiva nella quiete operosa di una democrazia, che si scoprì all’improvviso fragile e insicura. Questa sentenza ce lo ricorda, e così ci aiuta a non dimenticare.
La Repubblica 06.07.12