“GLI uomini che nascono con il giogo sul collo, nutriti e allevati nella servitù, si accontentano di vivere come sono nati, e non riuscendo ad immaginare altri beni e altri diritti da quelli che si sono trovati dinnanzi prendono per naturale la condizione in cui sono nati”. Questo è il famoso passaggio del Discorso sulla servitù volontaria (1548) di Étienne de La Boétie. Ed è forse l’unica chiave per cercare di capire come sia possibile che tante donne, nonostante le violenze fisiche e psicologiche che subiscono quotidianamente, restino poi accanto ai propri carnefici. Come fare ad immaginare che la vita possa essere altro, se da quando si è piccoli si è stati messi di fronte alla violenza? Come fare a pensare alla possibilità di un amore diverso, se non si è avuta la possibilità, e talvolta anche solo la fortuna, di sperimentarlo?
Può sembrare assurdo che tante donne, pur essendo consapevoli del male che subiscono, e che talvolta fanno poi anche subire ai propri figli, non reagiscano, non denuncino i propri aguzzini, non se ne vadano via, non cerchino di uscire dall’inferno in cui si trovano. E in parte lo è. Perché ogni persona dovrebbe essere portata a far di tutto per evitare la sofferenza e cercare di essere felice. Ogni essere umano, come scrive Spinoza, dovrebbe sforzarsi “di perseverare nel suo essere”.
Solo che non è poi così assurdo quando si pensa che ci sono tante donne che, fin dalla più tenera età, hanno conosciuto solo tanta violenza e tanto dolore. Al punto di essersi talmente abituate a questo stato di cose, che il solo fatto di pensare che la vita possa essere diversa diventa impossibile. È il “giogo” dell’abitudine, come direbbe ancora una volta La Boétie. Anche perché l’essere umano si abitua praticamente a tutto. Anche ad essere considerato un semplice oggetto a disposizione delle pulsioni altrui.
Ma è anche la prigione della ripetizione, per dirla in termini più contemporanei con la psicanalisi di Freud.
Perché quando si parla dell’amore, si parla quasi sempre del tentativo disperato di ritrovare l’“oggetto perso” quando si era piccoli. Quel famoso “oggetto” per il quale si sarebbe stati pronti a fare qualunque cosa, anche morire, pur di non perderlo.
Dietro l’amore, soprattutto nel caso di queste donne maltrattate (e che spesso non sopravvivono alle violenze subite), c’è il bisogno di rivivere qualcos’altro. Talvolta proprio il bisogno di ripetere gli stessi errori. Come per esorcizzare il passato e riuscire, almeno una volta, a staccarsi dal copione che era stato scritto per loro da chi avrebbe invece dovuto prendersi cura di loro; avrebbe dovuto aiutarle a crescere, insegnando loro ad avere fiducia nella vita e in loro stesse. Solo che la storia, purtroppo, si ripete. E la maggior parte delle volte finisce nello stesso modo. Tragicamente. Perché lui, che dice di amare la propria compagna anche quando è violento e l’umilia, in fondo non cambia. E queste donne umiliate e violentate, pian piano, finiscono col convincersi definitivamente di non valere niente, di non meritare nulla. Non smettono di credere nell’amore. Perché, nonostante tutto, l’amore resta l’orizzonte all’interno del quale cercano di evolvere. Solo che col passare del tempo si convincono che l’amore, quello vero, esiste solo per gli altri. Ecco perché l’unico motivo che talvolta le spinge a rompere il circolo vizioso nel quale si trovano sono i figli. Per i quali desiderano il meglio e che non vogliono coinvolgere nella propria tragedia. Altre volte, però, è proprio per i figli che restano accanto ai propri carnefici, convinte ancora una volta di non essere capaci, da sole, di proteggerli e di farli crescere serenamente. E allora tutto ricomincia da capo. Almeno fino a quando, “tolto il giogo dal collo”, non si accontentino più di “vivere come sono nate”.
La Repubblica 04.07.12