«Abbiamo salvato il principio che non ci saranno interventi di sostegno senza condizionalità ». Angela Merkel ha così giustificato davanti al Bundestag le concessioni fatte alle richieste di maggiore solidarietà venute da Italia e Spagna sia nell’aiuto alle banche sia nella creazione di un meccanismo anti-spread. In modo un po’ ellittico, la Cancelliera ha toccato la sostanza del problema.
Il problema complica non poco la discussione sulle misure da mettere in atto per far fronte alla crisi dei debiti sovrani. Il fatto è che il dibattito si sta svolgendo su due piani paralleli: uno esplicito, che riguarda i passi da compiere per calmare i mercati e garantire la solvibilità dei debiti pubblici accumulati dai governi; l’altro implicito, che riguarda la credibilità dei Paesi nei loro impegni a rispettare la tabella di marcia di risanamento che si sono imposti. E su questo secondo piano, il grande punto di domanda che in questo momento preoccupa le cancellerie europee, e in particolar modo quella tedesca è, ancora una volta, l’Italia.
Intendiamoci, nessuno, e tanto meno la Cancelliera, mette in dubbio la determinazione di Mario Monti nel portare a termine le riforme annunciate. Una determinazione dimostrata dai fatti. L’Italia sarà uno dei pochi Paesi europei a riportare il proprio bilancio in equilibrio strutturale nel 2013. Il problema che angoscia i tedeschi, e con loro i finlandesi, gli olandesi, gli austriaci, e tutti i Paesi «virtuosi», è il dopo-Monti.
L’allontanamento di Berlusconi, sfiduciato dal G20 di Cannes, dai mercati e dai partner comuni-tari, e l’arrivo del Professore a Palazzo Chigi hanno permesso di imprimere una svolta radicale alle
finanze pubbliche italiane.
«Ma un debito pubblico che è pari al 120 per cento del Pil non si riassorbe in due o tre anni di politiche virtuose», osserva un alto funzionario comunitario. Ancora oggi il debito italiano continua a crescere per l’effetto inerziale delle politiche passate, e comincerà a diminuire in modo significativo solo l’anno prossimo. Ma per riportarlo ad una soglia vicina al 60 per cento previsto dal Trattato di Maastricht, occorreranno decenni di osservanza rigorosa della disciplina di bilancio e di mantenimento di un significativo avanzo primario. E su questo piano l’Italia non offre nessuna vera garanzia
di coerenza.
Pochi giorni prima del vertice, mentre Monti si preparava ad una battaglia fondata sulla ritrovata credibilità del Paese, i nostri partner hanno ascoltato sbigottiti le dichiarazioni di Berlusconi, leader del partito di maggioranza relativa in Parlamento e colonna portante del governo, sull’opportunità di uscire dalla moneta unica. I tedeschi conoscono bene il fondatore del Pdl e sanno che non va sempre preso sul serio. Ma sanno anche quanto inconsistente sia il suo spirito europeo e quanto poco affidabili siano i suoi impegni politici. E, ancora più di Berlusconi, la Germania ha paura di Grillo: altro nemico dichiarato della moneta unica e del rigore che essa comporta. Un timore reso ancora più bruciante dal fatto che il Movimento 5 stelle ricorda per molti aspetti quello dei Piraten tedeschi, che pure stanno germogliando nelle elezioni locali con straordinaria rapidità. Se i media germanici cadono facilmente nel trabocchetto dei più vieti luoghi comuni anti-italiani, l’establishment tedesco è molto più sobrio e realistico nei suoi giudizi. Ma quando arriva alla conclusione che Grillo e Berlusconi esprimono comunque gli umori di una parte consistente dell’elettorato italiano, una parte che potrebbe facilmente diventare maggioritaria e rinnegare gli impegni assunti dal governo Monti, è difficile dare loro torto.
A fronte di questi timori, i guardiani della moneta unica sanno per certo che l’esperienza del governo tecnico di Monti si concluderà, se tutto va bene, tra meno di un anno. E che nella primavera prossima scadrà anche il mandato di Giorgio Napolitano, che in questi anni difficili è stato l’interlocutore privilegiato delle capitali europee. Inoltre constatano ogni giorno che il centro sinistra ancora esita sui prossimi schieramenti elettorali ed è a sua volta percorso da correnti fortemente contrarie, se non all’euro, alla politica di rigore del governo tecnico.
La fortissima opposizione della Germania e di tutto il Nord Europa a soluzioni che teoricamente appaiono ovvie, come gli eurobond, si spiega proprio con la sfiducia nel fatto che il sistema politico italiano sia in grado di esprimere sui tempi lunghi una leadership credibile e coerente con gli impegni assunti. Berlino si fida di più della Spagna, i cui conti sono peggiori dei nostri ma che comunque ha una classe dirigente, di destra e di sinistra, su cui si può fare affidamento. Ma che succederebbe se, una volta accettata una parziale mutualizzazione del debito, i partiti antieuropei prendessero il controllo del Parlamento italiano e venissero meno agli impegni di rigore assunti?
Questo spiega l’insistenza quasi ossessiva della Merkel perché qualsiasi concessione sulla condivisione del debito avvenga solo dopo che i governi nazionali avranno rinunciato alla sovranità sui bilanci. E spiega anche perché la Germania si oppone a qualsiasi meccanismo, come lo scudo anti-spread, che potrebbe alleviare la condizione di un Paese senza che questo debba sottomettersi al commissariamento della troika. Questa, in fondo, è proprio la battaglia che Monti sta cercando di portare a compimento in Europa: calmare i mercati puntando sulla credibilità del Paese senza doversi sottomettere all’umiliante protettorato europeo. Ma la Merkel insiste: nessuna solidarietà senza “condizionalità”. E lo fa pensando ai rischi del sistema Italia, dove le forze politiche non sono neppure in grado di varare una legge elettorale che metta il Paese al riparo dal ricatto delle minoranze più estreme, come in Francia. Per vincere le resistenze della Cancelliera, la politica dei veti e dei «pugni sul tavolo» può assicurarci qualche successo, ma non ci porterà lontano. Ci vorrebbe un risveglio di auto-coscienza del Paese, di cui per ora non si vede traccia e che comunque Monti non è in grado di garantire.
La repubblica 04.06.12