Non solo siamo «un Paese vecchio, con idee vecchie», come ha detto Cesare Prandelli ieri mattina, ma siamo anche tanto affezionati al mondo che abbiamo dietro alle spalle da spendere la maggior parte del nostro tempo nel rimpianto invece che nella voglia di futuro e di cambiamento. Viviamo di nostalgia del passato, un passato spesso idealizzato e totalmente riscritto nella nostra memoria, mentre avremmo bisogno di un’operazione radicale che torni a inserire nelle nostre teste il sentimento opposto: la nostalgia del futuro, la fame di futuro.
Viviamo in un mondo profondamente cambiato, ne conosciamo alla perfezione i limiti e stiamo provando sulla nostra pelle disagi e fatiche nuove, ma ormai ci concentriamo solo su queste rifiutandoci di vedere gli altri aspetti di quella rivoluzione globale che ci ha investiti. Perché esistono anche aspetti positivi, anche se dirlo appare ormai provocatorio, che vanno dal fatto che viviamo in un mondo con meno povertà (oltre un miliardo di persone sono uscite dalla fame negli ultimi trent’anni, un progresso che non ha precedenti nella storia), in cui si sono diffuse la coscienza ambientale e le sensibilità per i diritti, un mondo più vasto in cui a viaggiare non sono solo pochi privilegiati, in cui si è allargato l’accesso alle tecnologie e in cui si mette in discussione il potere e si chiede trasparenza con una forza che non ha precedenti.
In questo mondo le generazioni più giovani abitano di diritto, sono protagoniste, eppure sono quelle che pagano il prezzo più alto della crisi economica, sono le prime vittime della disoccupazione.
I dati diffusi ieri, seppur parziali e limitati, contengono un messaggio terribile: la disoccupazione generale diminuisce lievemente mentre quella giovanile aumenta ancora. Questo significa che anche dove si apre un posto, si intravede una possibilità, lì si preferisce assumere chi è già grande e lasciar fuori chi è ritenuto senza esperienza.
Si preferisce l’usato sicuro al nuovo, i giovani sono sempre stati inesperti, in ogni luogo e in ogni tempo, ma prima si apprezzava il fatto che dalla loro hanno l’energia e la passione, sono portatori di idee nuove e di cambiamento. Invece questo sembriamo essercelo dimenticato.
A lungo si è detto: è tempo di investire sui giovani, di scommettere sulle nuove generazioni, oggi basterebbe molto meno, basterebbe vederli, accorgersi che esistono.
Ma perché questi ragazzi più o meno giovani, visto che arrivano a superare i trent’anni, sono lasciati fuori? Perché non si batte per loro quella generazione di padri, madri e nonni che ogni giorno li protegge, li tiene in casa, garantisce loro i soldi per l’aperitivo, le vacanze, la benzina e li difende in ogni momento? Battersi per loro significherebbe capire che i sacrifici degli adulti (necessari per non lasciargli in eredità un debito spaventoso) e qualche passo indietro sarebbero l’unico vero regalo. Perché a forza di proteggerli e di tenerli al caldo non li abbiamo mai messi alla prova, non abbiamo lasciato che si scontrassero col mondo, così non sappiamo come se la caveranno. Abbiamo paura per loro e al momento di assumere si finisce per pensare che siano acerbi e immaturi.
Invece faremmo bene a metterli alla prova. Lo dovremmo fare tutti, genitori e datori di lavoro, dargli occasioni di sbagliare, di imparare e di correggersi. Ancora Prandelli, che in poche frasi di una conferenza stampa è riuscito a inquadrare alla perfezione i limiti che ci assillano oggi, ha ripetuto due volte che «forse non siamo ancora pronti per vincere» e ha aggiunto: «E’ un percorso lungo».
Ma come, non siamo pronti per vincere? Per noi italiani la vittoria è il migliore degli exploit, se poi è anche un po’ fortuita, imprevista e magari di rapina il piacere è quasi più grande. Prandelli ci dice invece che dobbiamo cambiare mentalità, tornare a pensare che le cose vanno costruite con pazienza, che la continuità è un valore: «Nel momento in cui saremo pronti a vincere, saremo anche pronti a rivincere, altrimenti resteremo sempre condannati a picchi seguiti da momenti bui». Mi sembra questa la sfida più grande, quella che Mario Monti sintetizza nell’augurio che l’Italia diventi un Paese «prevedibile», in cui noi siamo coscienti della nostra forza e del nostro valore e chi ci guarda da fuori sa cosa aspettarsi e cosa poter investire.
Allora proviamo a ripartire dai giovani, costruendo insieme a loro il futuro, mettendo in campo – come spiega benissimo Walter Passerini su queste pagine – tutti gli strumenti di supporto e di orientamento. Avendo il coraggio di guardare alla realtà per quella che è, senza coltivare la finzione di vivere ancora nel Novecento, perché il mondo non sta cambiando: il mondo è già cambiato.
Anche chi si lamenta e vede buio sostiene che c’è voglia di cambiamento, di rinnovamento ma, come diceva Albert Einstein, «Non possiamo pretendere che le cose cambino, se continuiamo a fare le stesse cose». Lo scriveva all’inizio degli Anni Trenta, in un articolo raccolto poi in un libricino che si chiama «Il mondo come io lo vedo». Vale la pena riportare anche il resto della citazione, perché non ho mai trovato qualcosa di più lucido e coraggioso di fronte al buio e alla paura: «È nella crisi che sorge l’inventiva, le scoperte e le grandi strategie. Chi supera la crisi supera sé stesso senza essere superato. Chi attribuisce alla crisi i suoi fallimenti e difficoltà, violenta il suo stesso talento e dà più valore ai problemi che alle soluzioni. La vera crisi, è la crisi dell’incompetenza. L’inconveniente delle persone e delle nazioni è la pigrizia nel cercare soluzioni e vie di uscita. Senza crisi non ci sono sfide, senza sfide la vita è una routine, una lenta agonia. Senza crisi non c’è merito. È nella crisi che emerge il meglio di ognuno, perché senza crisi tutti i venti sono solo lievi brezze. Parlare di crisi significa incrementarla, e tacere nella crisi è esaltare il conformismo. Invece, lavoriamo duro. Finiamola una volta per tutte con l’unica crisi pericolosa, che è la tragedia di non voler lottare per superarla».
La Stampa 03.07.12