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"Se l’emergenza non finisce mai", di Barbara Spinelli

Non credo che il Presidente della Repubblica abbia da temere le critiche che da qualche settimana gli vengono rivolte sui rapporti intercorsi con Nicola Mancino prima che questi venisse indagato per falsa testimonianza nelle indagini su Stato e mafia. Non credo nemmeno che le critiche possano affliggere Monti, perché il presidente del Consiglio ha una sua forza autonoma, che nasce da delicati equilibri interni garantiti
dal Quirinale. Ma anche, e in misura crescente, da equilibri europei e internazionali. Lo stesso si dica per il capo dello Stato: l’autorità che ha acquisito chiudendo gli anni berlusconiani non si cancella, e l’improprio favore che dal Quirinale è venuto a Mancino non l’indebolisce oltremisura.
Viene in mente la prefazione di Roberto Scarpinato alla raccolta di scritti di Falcone e Borsellino: tutto quello che sentiamo ufficialmente dire su mafia e politica sono eventi che vanno in scena(Le ultime parole di Falcone e Borsellino, Chiarelettere 2012). Ma esistono eventi non detti, banditi (il «gioco grande» del potere cui alludeva Falcone), che restano fuori scena. E il chiarimento sembra non venire mai: o perché lo impone la ragione di Stato, o perché lo vieta un contingente stato di emergenza.
Nell’emergenza viviamo da tanto, troppo tempo. È come un treno sterminato, ogni convoglio è uno stato d’eccezione che subito cede il passo a un identico convoglio, e questo ha deformato non solo i modi e le regole della politica, ma la vigilanza di noi tutti. Con Achille Campanile potremmo concludere: «Ci sono regole che sono fatte di sole eccezioni. Sono confermatissime». Sono microscopici i periodi in cui il paese può dire a se stesso: questo non è uno stato di necessità, che mi obbliga a scegliere tra stabilità e normale dialettica democratica, che giustifica interventi anomali o leggi bavaglio per custodire segreti di Stato. Tra le innumerevoli emergenze ricordiamo il terrorismo, le stragi degli anni ’90, i patti con la mafia che s’accoppiarono alle stragi. Nell’intermezzo: le emergenze terremoto (Irpinia, Molise, Abruzzo), che permisero a cricche e camorre di lucrare sui disastri. Sono emergenze minori ma assieme alle altre hanno rafforzato, nelle menti, l’idea che la norma in Italia sia appunto fatta di sole eccezioni, che il potere giudiziario debba adattarsi a esse, e che tale sia il prezzo da pagare a un’unica, accentratrice istanza superiore: la ragione di Stato.
Questo prevalere della ragione di Stato è il nodo centrale che la politica dovrebbe guardare in faccia, risolvere. E non può farlo, a mio parere, se non va alle radici del fenomeno, e non scoperchia i due grandi eventi che hanno generato, come risposta, sia la logica dello stato di necessità, sia il conflitto politica-giustizia. Ambedue gli eventi sono insorti quando è finita la guerra fredda, nei primi anni ’90, ed è giusto chiamarli col nome di rivoluzione: quella di Mani Pulite, e quella di Falcone e Borsellino in Sicilia. Furono rivoluzioni perché un equilibrio malato si spezzò, travolgendo una partitocrazia che aveva lungamente sgovernato. E perché gli italiani videro in esse una possibile redenzione della politica e anche dello Stato. La ragione di Stato poteva divenire il bene comune, non coincidere più solo con le convenienze partitiche.
A vent’anni di distanza, è chiaro che le rivoluzioni – ostacolate, svilite – sono rimaste incompiute. L’una e l’altra puntavano a una rigenerazione della politica, che non c’è stata. C’è stata anzi regressione: sono aumentati scandali, corruzione, mafie. I magistrati avevano iniziato l’opera (avevano «appena inciso la superficie della crosta», disse Gherardo Colombo a Giuseppe D’Avanzo nel ’98) ma i politici non raccolsero il testimonio per cominciare una nuova e diversa corsa.
Ricordiamo quel che disse Borsellino delle responsabilità politiche, il 26 gennaio 1989 a Bassano del Grappa: «La magistratura può fare soltanto un accertamento di carattere giudiziale. Può dire: ci sono sospetti anche gravi, ma io non ho la certezza giuridica… che mi consente di dire che quest’uomo è mafioso. Però siccome dalle indagini sono emersi altri fatti del genere, altri organi, altri poteri, cioè i politici, le organizzazioni disciplinari delle varie amministrazioni, i consigli comunali dovevano trarre le dovute conseguenze da certe vicinanze tra politici e mafiosi che non costituivano reato ma rendevano comunque il politico inaffidabile nella gestione della cosa pubblica.
Questi giudizi non sono stati tratti perché ci si è nascosti dietro lo schermo della sentenza: questo tizio non è mai stato condannato, quindi è un uomo onesto. Il sospetto dovrebbe indurre soprattutto i partiti politici quantomeno a fare grossa pulizia, non soltanto a essere onesti, ma ad apparire onesti facendo pulizia al loro interno di tutti coloro che sono raggiunti comunque da episodi o da fatti inquietanti anche se non costituenti reati».
L’emergenza infinita ha permesso di eludere precisamente questo: la presa di coscienza nei politici. Erano loro a dover far proprie le rivoluzioni dei giudici: per approfondirle, e trarne le necessarie conseguenze. Nulla di tutto questo è stato fatto, e una serie di patti d’emergenza sono stati stretti al suo posto, a cominciare dai negoziati con la mafia. Non dimentichiamo che l’emergenza ha avuto i suoi martiri: Dalla Chiesa, Chinnici, Falcone, Borsellino, con le rispettive scorte. L’uccisione di Borsellino assume speciale importanza perché le trappole emergenziali lui le vide, ne fu inorridito, e lottò perché lo Stato, pur di evitare nuove stragi, non patteggiasse con la mafia. Parliamo di presunte trattative, ma l’aggettivo è incongruo. I negoziati con la mafia non sono presunti: il colonnello Mario Mori e l’ex capitano dei carabinieri Giuseppe De Donno hanno ammesso in più sedi giudiziarie d’aver parlato con Vito Ciancimino perché facesse da tramite con Riina. E la Corte d’Assise di Firenze, nel condannare all’ergastolo il boss Tagliavia, confermò il connubio politico-mafioso («Una trattativa indubbiamente ci fu e venne, quantomeno inizialmente, impostata su un do ut des. L’iniziativa fu assunta da rappresentanti delle istituzioni e non dagli uomini di mafia »). Presunti sono i
reati legati alla trattativa, sui quali indagano i pm di Palermo, ma è proprio su questo punto che la politica (non la magistratura) ha eluso i propri obblighi. Prevalsero la nebbia, la melma: nella melma, nell’omertà, nell’ininterrotta ricerca di capri espiatori, le classi dirigenti italiane possono meglio scongiurare la rigenerazione che toglierebbe loro i nutrimenti cui sono abituati.
Hanno mai detto, i politici, che trattare con la Cupola è comunque un reato, soprattutto quando venne fuori che chi rifiutava i negoziati, come Borsellino, finiva ammazzato? Hanno preferito tacere, e attaccare i giudici quando faticavano a configurare l’esatto reato: perché non configuravano loro reato e rimedi? Si sono «nascosti dietro lo schermo delle sentenze», affidandosi completamente ai giudici e denunciandone contemporaneamente il «protagonismo ». Lo stesso hanno fatto con Mani Pulite. Non hanno proseguito con le loro mani la rigenerazione dei partiti, non hanno fatto la «grossa pulizia» che veniva loro richiesta. Il quasi ventennio berlusconiano è stato una lunga contro-rivoluzione, una contro-memoria di Mani Pulite e del pool di Palermo. Ma la melma comincia prima di lui. Si capisce allora la rabbia di giudici come Scarpinato, che si sente sempre più
spaesato nelle cerimonie sui martiri di mafia. Ci sono commemorazioni che a questo servono: alla fuga dalle proprie responsabi-lità, alla voglia di tener sotto coperchio quel che in politica avviene «fuori scena», a perpetuare la contaminazione della ragion di Stato. Se la politica è scesa così in basso da essere oggi screditata radicalmente, è perché la redenzione non c’è stata, e tanti italiani hanno perfino dimenticato di averne sentito il profumo.

La Repubblica 03.07.12