L’Europa finalmente ha battuto un colpo. Il deficit politico accumulato dal vecchio Continente resta ancora tutto da ripianare, ma il risultato del summit di Bruxelles stavolta ha avuto un segno positivo, riconosciuto anche dai mercati. Pure l’Italia è tornata a giocare un ruolo importante dopo gli anni bui di Berlusconi. Per il premier Monti è stato un successo. Personale, e non solo. Alle spalle aveva un mandato ampio (rafforzato dalla convergenza di Pd e Udc su un documento parlamentare comune, a fronte dei distinguo del Pdl) e al fianco Monti ha avuto Hollande, il neopresidente socialista della Francia, l’uomo che ha cambiato gli equilibri dell’Unione.
L’Europa è il nostro destino. È la crisi politica dell’Europa che sta mettendo a rischio un modello sociale. Solo una reazione comunitaria può portarci fuori dalla depressione economica e dal declino. Ma intanto il declino favorisce le chiusure nazionaliste, gli egoismi di classe, il diffondersi dei populismi (purtroppo non solo a destra). C’è poco tempo per reagire.
Il recente Consiglio europeo ci ha dato un po’ di ossigeno: guai a sprecare l’occasione. Ci sarà bisogno di ridurre la spesa corrente per aumentare gli investimenti: l’Europa ha innanzitutto necessità di tornare a crescere. Di puntare sul lavoro, sui suoi giovani, sulle sue intelligenze. Ha bisogno di ridurre gli squilibri, cresciuti a dismisura nell’ultimo decennio. È per questo che occorre rimettere al centro la politica e le istituzioni, invece del mercato e della finanza. La svolta necessaria passa attraverso cessioni di sovranità, ma non è più tempo di riforme calate dall’alto: la politica tornerà a prevalere solo se avrà un forte contenuto sociale, se dimostrerà di ridurre le diseguaglianze, di aumentare le opportunità, di legare imprese e lavoro ad una stagione di crescita qualitativamente nuova.
L’esito incoraggiante del summit ci pone comunque sfide interne ed esterne. Una sfida decisiva riguarda il profilo dell’Europa. Non c’è alternativa ad una Unione politica e fiscale sempre più forte. Il percorso per arrivarci è però pieno di ostacoli e di trappole. È stata battuta a Bruxelles la resistenza di Angela Merkel, e in qualche modo la filosofia che ha ispirato l’egemonia del centrodestra franco-tedesco: ma sarebbe un grave errore intensificare ora il conflitto con la Germania, anziché attenuarlo per accorciare i tempi verso le necessarie riforme europee. Merkel dovrà vedersela in casa propria con le contraddizioni della sua maggioranza e, speriamo, con una coalizione rosso-verde capace di rilanciare con un programma europeista. Ma sono solo testimonianze di squallore e di degrado, come giustamente ha sottolineato ieri Michele Ciliberto, le frasi offensive rivolte contro la cancelliera da parti del centrodestra italiano, che prima si vantava di esserle alleato e ora la contesta con gli argomenti delle destre radicali.
La sfida interna più importante riguarda i contenuti della transizione italiana. Ora Monti si sente più forte per arrivare alla primavera del 2013. Non c’è dubbio che nel negoziato europeo ha dato il meglio di sè, rafforzando il valore delle scelte compiute dal Capo dello Stato. Ma la durata del governo non vale da sola a dare un senso positivo alla transizione. La missione del governo non è soltanto quella di guidare il Paese in un frangente burrascoso, riconquistando in Europa la credibilità perduta dai governi Berlusconi. La transizione, per essere fruttuosa, deve restituire agli italiani un sistema politico funzionante, deve farci uscire dalla Seconda Repubblica, deve soprattutto riportare equità laddove finora i sacrifici sono stati tutti a carico dei «soliti noti». Non basta, insomma, un segnale promettente in Europa per illuminare la strada fino a fine legislatura. Se torneremo a votare con il Porcellum, in virtù del boicottaggio Pdl sulle riforme, non si potrà non dire che la transizione sarà fallita. A maggior ragione il discorso vale per le questioni sociali: le misure di austerità, pur necessarie, hanno avuto un segno depressivo e gravano in modo insostenibile sui ceti sociali più deboli. È necessaria una doppia svolta: nel senso della crescita e nel senso della giustizia sociale. Non si tratta solo di porre rimedio ai casi di macroscopica ingiustizia come per gli esodati. Si tratta di avviare un piano per il lavoro e lo sviluppo, magari straordinario, magari finanziato con una patrimoniale, che sarà tanto più solido quanto diventerà bandiera comune dei progressisti europei.
Ma c’è ancora una sfida. Nella transizione occorre preparare una solida alternativa di governo. I «tecnici» sono, appunto, un passaggio. Se fossero un’emergenza continua, l’Italia andrebbe incontro ad un destino «greco». Compito del centrosinistra, in primo luogo del Pd, è costruire il progetto e la squadra di domani. Questo è oggi parte essenziale della sua funzione nazionale. Non si potrà costruire un progetto a dispetto dei contenuti. Non si dovrà ripercorrere la fallimentare strada dell’Unione. L’impegno per sostenere il governo Monti, per correggerne i contenuti sociali, per spingere sempre più l’Italia all’alleanza con i progressisti europei è parte del lavoro di costruzione dell’alternativa. Se Di Pietro pensa che può allegramente attaccare il presidente della Repubblica, inseguire il populismo anti-euro di Grillo, contrastare il governo Monti come se fosse la continuazione del governo Berlusconi, deve sapere che stavolta non ci sarà alleanza possibile.
Le stesse primarie del centrosinistra devono contenere gli antidoti all’Unione. Chi partecipa deve stringere un patto di programma così forte da prefigurare la convergenza, domani, in un solo partito. Una sfida che Vendola aveva lanciato per primo (mentre Di Pietro ha già tradito una volta la parola data, a Veltroni nel 2008). Le primarie come momento di sintesi e di rilancio: non solo per la scelta di un leader. Poi un partito rafforzato e coeso potrà utilmente allargare il consenso e le alleanze. A partire da quelle forze con cui si è condiviso prima l’opposizione a Berlusconi, poi il sostegno a Monti in chiave europeista.
l’Unità 01.06.12