attualità, politica italiana

"Il piano del governo meno Iva nel 2013 e Fondo salva-debito", di Massimo Giannini

Il patto di Bruxelles, sottoscritto tra i leader europei per salvare la moneta unica, consente all’Italia di staccare un doppio «dividendo». Il primo è positivo per i contribuenti: la manovra sull’Iva, già congelata per il prossimo ottobre, nel 2013 sarà meno pesante del previsto. Lo consentiranno i risparmi sulla spesa corrente garantiti dal decreto sulla spending review, che il governo renderà più incisivo per dare subito un segnale forte all’Europa. Il secondo è positivo per il bilancio dello Stato: la manovra di abbattimento del debito pubblico con la costituzione di uno o di più Fondi «salva-Italia», già anticipata dal premier a Berlino il 14 giugno, sarà accelerata. Lo consentiranno i risparmi sulla spesa per interessi garantiti dallo scudo salva-spread. NEL governo tutti i ministri hanno tirato un sospiro di sollievo, dopo l’esito dello «storico » vertice di giovedì e venerdì. L’intesa tra i capi di Stato e di governo andrà tradotta in fatti concreti, soprattutto dall’eurogruppo del 7 luglio. Ma la svolta c’è stata. Corrado Passera, ministro dello Sviluppo, non ha dubbi: «Il passo politico è stato importantissimo, anche se andrà riempito di contenuto tecnico e realizzativo. E Monti è stato veramente grande…». Ma al di là dell’alto contenuto politico per l’Europa, il patto di Bruxelles per l’Italia riveste un significato economico altrettanto rilevante. Come dice Piero Giarda, ministro per i rapporti con il Parlamento, «c’è una spinta ancora più forte ad accelerare sulle riforme strutturali, che riguardano la spesa, le entrate e anche il debito pubblico ».
Sulla spesa, in queste ore tutti i ministri sono al lavoro per completare i tagli previsti dalla spending review. Il decreto ritarderà qualche giorno, ma solo perché il «target» fissato dal premier vuole essere più ambizioso del previsto. I risparmi che Monti vuole ottenere, e che Enrico Bondi ha ordinato nel suo piano, sono rinchiusi in una forchetta che oscilla tra i 7,5 e i 10 miliardi. Tutti i capitoli sono coinvolti: dalla sanità agli enti locali al pubblico impiego. I dicasteri e i sindacati si lamentano, ma Grilli non sente ragioni. C’è un motivo in tanta intransigenza, che a qualcuno fa addirittura rimpiangere i tagli lineari di Tremonti: e quel motivo si chiama Iva.
Sulle entrate, infatti, il piano di Monti è non solo quello di evitare l’aumento dell’imposta sul valore aggiunto che doveva scattare a ottobre. Ma grazie ai maggiori risparmi della spending review e alla buona tenuta del gettito dell’Imu (finora sono stati incassati circa 9 dei 9,7 miliardi previsti per la prima rata) il premier vuole attenuare l’urto degli aumenti già previsti dal primo gennaio 2013. Se il quadro contabile non peggiora, le due aliquote Iva del 10 e del 21%, che dovevano aumentare rispettivamente di 2 punti dall’anno prossimo, aumenteranno solo di 1 punto. Non è manna dal cielo per i contribuenti, ma è comunque il segnale di un’inversione di tendenza. Giarda ha già fatto i suoi calcoli: «I due punti di aumento del-l’Iva valgono 13 miliardi. Il costo di 1 punto per ciascuna delle due aliquote è di circa 6,8 miliardi. Se la spending review funziona, ce la possiamo fare».
La sfida più impegnativa, e se vogliamo più innovativa, riguarda il debito pubblico. Anche qui, il vertice europeo è uno stimolo fondamentale, per accelerare sul progetto che Monti ha già anticipato due settimane fa dopo il bilaterale con la
Merkel. Si tratta di aggredire il Moloch di un debito che sfiora i 2 mila miliardi di euro, e che supera il 120% del Pil, non a colpi di manovre lacrime e sangue, che stanno uccidendo l’economia reale, ma con un’operazione strutturale sul patrimonio. Il «firewall» è la creazione di uno o di più Fondi «Salva Italia», ai quali conferire quote di patrimonio pubblico, mobiliare e immobiliare. Dagli asset dello Stato a quelli degli enti locali, dalle partecipazioni strategiche come Eni Enel e Finmeccanica alle municipalizzate.
Il modello è quello indicato in questi mesi in varie proposte, da quella di Andrea Monorchio a quella di Pellegrino Capaldo, e rilanciato nei giorni scorsi da Giuliano Amato: questo Fondo, o questi Fondi, dovrebbero valorizzare e vendere quote di patrimonio ai risparmiatori italiani, sottoscrivendo «o quote (redditizie) dello stesso patrimonio, o titoli speciali del debito pubblico, a tassi di interesse inferiori a quelli che ci potrebbe dettare il mercato». Il ricavato andrebbe ad abbattere il debito pubblico, che potrebbe scendere al 100% nel giro di pochi anni. Persino l’ex ministro Renato Brunetta, “falco” del Pdl, ha dato via libera a questo progetto. Ma per far funzionare l’operazione, occorrono due requisiti. Il primo sono le condizioni della liquidità, e su questo dovrebbe supplire la Cassa depositi e prestiti. Il secondo sono le condizioni di mercato, e su questo dovrebbe aiutare il risultato del patto di Bruxelles. È ancora Giarda a spiegarlo: «Finchè i rendimenti dei nostri titoli pubblici oscillano intorno al 6% sarà molto difficile convincere gli italiani a comprare i titoli emessi dal nuovo Fondo Salva Italia a tassi che non superano il 2%. Ma se lo scudo antispread deciso al vertice funzionerà davvero, allora i tassi di interesse possono finalmente scendere in modo strutturale, e allora diventerà finalmente possibile collocare i nuovi titoli che ci consentiranno di abbattere il nostro debito pubblico, senza martoriare di sacrifici i cittadini e senza soffocare l’economia del Paese». È una scommessa. Ma mai come adesso vale la pena di giocarla.

La Repubblica 01.07.12

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“SUPERMARIO HA VINTO MA LA MERKEL NON HA PERSO”, di EUGENIO SCALFARI

L’ANDAMENTO del vertice di Bruxelles, i provvedimenti presi e immediatamente esecutivi, gli obiettivi di fondo per la costruzione di un nucleo politico di Stato federale europeo, sono stati già ampiamente illustrati. I protagonisti hanno parlato e commentato. I mercati hanno risposto in modo estremamente positivo. Le Borse — specialmente quelle italiane spagnole francesi e Wall Street — hanno segnato i massimi di tutto l’anno; lo “spread” italiano è diminuito di 50 punti-base, il tasso di cambio euro-dollaro è aumentato di 2 punti-base.
Ma sono gli effetti politici e le aspettative gli elementi più importanti del quadro che si è delineato venerdì scorso a Bruxelles, con conseguenze sull’Europa, in Usa e nei Paesi membri dell’Unione. Riassumiamoli per comodità di esposizione.
1. L’asse tra Germania e Francia con l’evidente egemonia tedesca ha ceduto il posto ad una direzione collettiva i cui pilastri di sostegno sono la Germania, la Francia, l’Italia, la Spagna.
2. L’accordo si basa su uno scambio storico che ha come protagonisti la Merkel e Hollande: cessione di sovranità degli Stati membri dell’Unione (per quanto riguarda l’eurozona) e interventi immediati sul rilancio della domanda e sulla messa in sicurezza del sistema bancario, degli “spread” e dei debiti sovrani.
Tre. È un errore sostenere che la Merkel sia stata sconfitta a Bruxelles; la cancelliera ha ottenuto quello che è il destino della Germania: la nascita dell’economia federale dell’eurozona con i tempi che essa richiede ma con l’adesione della Francia, la più difficile da ottenere. Hollande dal canto suo ha anche lui ottenuto ciò che voleva: porta a casa provvedimenti di crescita e di difesa dell’euro. Cessione di sovranità a medio termine, solidarietà economica in tempo immediato.
4. Mario Monti è stato il protagonista numero uno. Forse il paragone calcistico è irriverente ma di questi tempi aiuta a capire meglio: Hollande – come Cassano – ha fornito gli “assist”; Monti – come Balotelli – ha messo la palla in rete. Non a caso i mercati italiani in Borsa e nelle quotazioni dello “spread” sono stati in testa a tutti gli altri.
5. Ripercussioni molto rilevanti e positive si sono verificate anche in Usa a favore di Obama. Giovedì il presidente aveva incassato una sentenza della Corte suprema che approvava e rendeva esecutiva la riforma sanitaria varata dallo stesso Obama nel 2010, ma che era stata bloccata dai repubblicani. Il giorno dopo il vertice di Bruxelles ha raggiunto risultati che Obama aveva più volte auspicato e che rafforzeranno la ripresa economica americana.
Questa è la sostanza politica di quanto è accaduto. Ad alcuni piacerà molto, ad altri molto meno, sia in Usa sia nell’eurozona sia nell’Unione dei 27 sia nei singoli Paesi. Non piacerà ai repubblicani americani, non piacerà alla Bundesbank, non piacerà all’estrema destra francese. Non dovrebbe dispiacere a Cameron e neppure alla City di Londra ma questo dipende dalla loro maggiore o minore saggezza.
In Italia la situazione è complessa
ma ormai chiarissima nelle sue linee essenziali.
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Un articolo sulla prima pagina del “New York Times” di ieri racconta con dovizia di particolari il vertice di Bruxelles concludendo col dire che il vero protagonista, quello che è riuscito a impedire un finale generico e senza risultati come molti prevedevano sarebbe avvenuto, è stato Monti.
È andata esattamente così. Il nostro premier ha portato a casa quanto aveva promesso, non soltanto per far fronte alle necessità impellenti del nostro Paese ma anche per rafforzare l’Europa modificandone il quadro generale e le prospettive di fondo. Sarà molto difficile ora mettere il governo in difficoltà e paralizzarne l’azione. Della debolezza italiana Monti ha fatto una forza: questo è stato il fatto sorprendente che prende ora in contropiede i “berluscones” che puntavano su elezioni anticipate per riportare in proscenio forze e personaggi che ormai ne sono definitivamente e meritatamente usciti.
Resta il tema della recessione, che infuria non solo in Italia ma in tutto il mondo e che richiede un tempo tecnico e appropriate politiche concertate a livello internazionale per esser trainata e poi invertita in ripresa produttiva e occupazionale.
L’alternarsi di crescita e di recessione è il modo d’essere del capitalismo, il famoso calabrone che continua a volare nonostante che il suo peso e la sua velocità farebbero presumere che debba cadere a terra.
Supporre che fosse questo il tema sul tavolo dei 27 e dei 17 Paesi riuniti a Bruxelles l’altro ieri dimostra una dose di ignoranza teorica e politica del problema che può essere comprensibile in chi è del tutto estraneo alla storia economica, ma è stupefacente in chi invece dovrebbe essere esperto di come procedono i cicli congiunturali e come se ne possano correggere gli andamenti, stimolare i risparmi, moderare i debiti, adottare politiche appropriate della spesa pubblica, degli investimenti e dell’occupazione.
La recessione europea e italiana è cominciata un anno fa, non è quindi quella novità di cui la Confindustria si accorge oggi. Purtroppo tenderà a durare e addirittura ad aggravarsi fino al prossimo autunno; poi, se le politiche anticicliche prenderanno corpo in Italia e in Europa, potrà rallentare nell’ultimo trimestre dell’anno e iniziare un’inversione di tendenza ancora tenue ma significativa fin dal primo semestre del 2013.
Nel frattempo bisognava garantire alcuni “fondamentali”: il rapporto tra rendimento dei titoli pubblici, consistenza del fabbisogno, deficit e prodotto interno lordo, saldo della spesa corrente, lotta all’evasione fiscale.
Queste sono le condizioni necessarie per render possibile la politica anticiclica e il recupero della produttività e della competitività. E proprio a realizzarle è servita l’azione di Monti e di Hollande al “meeting” di Bruxelles.
Pensare che un percorso così complesso e la logica che lo sorregge attenui la rabbia di chi deve sopportare i sacrifici è illusorio. La rabbia c’è e probabilmente crescerà ancora. Spetta al governo, alle forze politiche e a tutta la classe dirigente del Paese canalizzarla, spiegarne i passaggi, intervenire e mobilitare risorse aggiuntive per garantire tutela ai più deboli, attuando ora più che mai la politica contro le rendite e gli oligopoli e predisponendo ammortizzatori sociali che accompagnino il Paese soprattutto nella fase recessiva fino a quando il corso ne sarà invertito.
Poi, fra dieci mesi, si aprirà il tema assai spinoso del dopo Monti e quello altrettanto importante del dopo Napolitano il quale – sia detto perché è una realtà oggettiva – è stato insieme a Monti l’artefice del successo che ha coronato una stagione di sforzi, di difficoltà e di tempesta congiunturale.
Mi vien fatto di pensare che cosa sarebbe accaduto se in questa circostanza non ci fossero stati Napolitano al Quirinale, Monti a Palazzo Chigi e Draghi alla Banca centrale europea.
Concludo con due battute e le riferisco per chiudere in allegria un periodo assai tormentato: un tempo c’erano i Tre-monti, adesso ci sono i Tre-Mario (il terzo è Balotelli). E poi: forse le cose sarebbero andate ancora meglio se al posto di Monti a Bruxelles ci fosse andato Renzi. Absit iniuria.

La Repubblica 01.07.12