Si svolge oggi a Venezia, per iniziativa della confindustria veneta, un convegno sull’importanza degli istituti tecnici e professionali per lo sviluppo dell’economia italiana e sull’intreccio che questa questione rappresenta rispetto alla diffusione della cultura scientifica e all’economia in genere.
Confindustria da tempo getta un grido d’allarme e parla di emergenza tecnico-scientifica del paese. Insiste inoltre su un’idea intelligente di Gianfelice Rocca a proposito del peso internazionale dell’economia italiana nel campo del middle tech, non volendo con questo sottovalutare la necessità di competere con imprese hi tech sul mercato mondiale, ma guardando anche all’ambito dell’innovazione tecnologica su un fronte più diffuso, meno di punta e tuttavia indispensabile e di grosso impatto economico. L’impresa italiana e lo stesso paese hanno un ruolo internazionale in questo campo, ma rischiano di vederlo ridursi se si sottovaluta, appunto, sia il valore di una cultura scientifica diffusa, sia l’apporto che può dare una preparazione scolastica come quella degli istituti tecnici e professionali.
L’allarme è fondato su due elementi: sulla riduzione preoccupante di studenti e negli istituti tecnici e nei corsi di laurea scientifici. È vero che negli ultimi anni c’è stata una ripresa sia scolastica che universitaria in questo campo, ma il fenomeno è insufficiente. Di qui l’allarme.
Il «Gruppo di lavoro per la cultura scientifica e tecnologica» da me presieduto conviene decisamente sia sull’allarme, sia sulle proposte di rimedio qui ricordate. Esattamente il 5 marzo abbiamo celebrato al Cnr un’iniziativa dal titolo «Scienza è cultura» ed abbiamo avanzato proposte su questo stesso argomento. In più, mercoledì prossimo presenteremo in una conferenza stampa i risultati di un’indagine conoscitiva svolta nelle scuole italiane a proposito dello stato di diffusione dei laboratori e degli spazi attrezzati per l’insegnamento delle scienze. Abbiamo distribuito i questionari alle 11mila scuole italiane per un’indagine censuaria sullo stato di queste attrezzature e poi svolto un’inchiesta diretta, somministrando schede di rilevazione a campione in 1.400 scuole rivolte ai docenti di materie scientifiche, in collaborazione con l’amministrazione scolastica e col suo progetto «Insegnare scienze sperimentali».
Anticipo la sostanza del risultato di un’inchiesta molto accurata che non si è voluta limitare ad ottenere risposte generiche e poco attendibili, ma ha voluto frugare nella pratica effettiva della didattica sperimentale. La presenza degli esperimenti e delle osservazioni scientifiche nella scuola è debole, marginale, nella didattica delle scienze. Le carenze sono quantitative, ma soprattutto qualitative perché anche laddove i laboratori o le attrezzature esistono, essi sono poco utilizzati e soprattutto non incidono sostanzialmente nell’effettiva attività didattica di quelle discipline.
Torniamo qui al punto centrale: nella nostra scuola la scienza è materia quasi solo gnoseologica, non ha un percorso sperimentale. Viene così negato intrinsecamente il grande valore educativo e culturale dell’avventura intellettuale nel mondo della scienza che è fondato sull’intreccio, sulla sintesi tra teoria e pratica, fra osservazione e speculazione intellettuale. Non sola empiria, ma non sola gnoseologia. In altri termini: bastoncini e segmenti, entrambi. Senza sollecitare la curiosità, la meraviglia, il fascino e costruire una conquista del proprio sapere attraverso l’osservazione della natura non è possibile diffondere la cultura e l’interesse scientifico tra tutti i cittadini. Né può perseguirsi il risultato che solo pochi possano accedere ad essi.
Non si può imparare a nuotare senza calarsi nell’acqua, come diceva Oppenheimer a proposito dell’insegnamento scientifico.
Abbiamo ribadito il 5 marzo che tutto ciò è indispensabile per raggiungere una cittadinanza scientifica nel paese, fondamento di una più generale democrazia consapevole e insieme di una capacità diffusa di problem solving e quindi di un potenziale competitivo elevato nell’economia. L’Italia ha bisogno di cultura scientifica diffusa e, come dimostra l’Ocse, è troppo indietro in questo campo.
C’è un nesso stretto fra apprendimento scientifico nelle scuole e comunicazione scientifica nella società rivolta al complesso dei cittadini, anche adulti. Esso si fonda su un modernissimo diritto al sapere scientifico, parte integrante del diritto al sapere che è un bisogno ineludibile della società della conoscenza. Il sapere è insieme fattore di civiltà e fattore produttivo di ricchezza e pertanto la società ha bisogno della sua massima diffusione.
Questa si realizza nell’età dell’investimento intellettuale a scuola ma deve continuare per tutta la vita anche fra i cittadini adulti e la democrazia impone agli stessi scienziati che non si limitino a produrre sapere, che è la propria funzione sociale rilevantissima, ma che collaborino a consentire ai cittadini di accedervi.
Il sapere è di tutti, non soltanto di chi lo produce. È insieme un diritto e un dovere. Infatti oggi si parla di terza missione dell’università che, oltre a far ricerca e insegnare, deve anche comunicare i risultati della scienza.
Del resto, questo dato strutturale della società della conoscenza e della qualificazione dei diritti del cittadino è rappresentato anche dal diffondersi, in una misura finora sconosciuta, dei musei della scienza, degli science centers, in tutto il mondo e anche in Italia. Sono quasi mille, sia pure molto diversi tra di loro, questi momenti che esaltano il grande patrimonio scientifico italiano costruito nei secoli e che integrano quello, straordinario, dei beni culturali ed artistici. E la frequenza dei visitatori, le stesse nuove tendenze di una partecipazione non solo passiva degli stessi, ma anzi interattiva nei numerosi musei scientifici, è il segno di questa grande novità che fa il paio con un altro fenomeno: i festival della scienza e l’altissima frequenza di giovani e cittadini alle manifestazioni, a mio avviso molto simili, sia dei festival della matematica che delle lecturae dantis o sui temi filosofici in piazza o in televisione.
Si è chiuso da poco a Trieste Fest, il festival dell’editoria scientifica, che rappresenta un’ulteriore tassello di questa attività e abbiamo visto che il concorso di popolo è stato, anche in questa occasione, molto rilevante.
Questa è l’Italia: una forte domanda sociale di conoscenza, una insufficiente offerta istituzionale, anche se i tentativi non mancano, ed una scuola completamente spiazzata rispetto a questa domanda.
Se non si cambia radicalmente l’impostazione didattica, se non si sollecita curiosità e interesse in tutti, se la scuola non diventa il regno del coinvolgimento degli alunni e continua a perpetrare la sua attività sulla base esclusiva delle lezioni frontali e della didattica deduttiva, se non si sollecita la capacità di ragionare su quello che si impara, se non si parte dal problema e ci si limita al solo «dato», continueremo ad essere Calimero nelle classifiche internazionale dell’Ocse o di altri e perderemo terreno nella competizione mondiale.
L’Unità, 20 aprile 2008