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"l'Illecito che non c'è e la Storia da Scrivere", di Michele Ainis

La presunta trattativa del 1992 fra Stato e mafia sta spargendo altri veleni sulla democrazia italiana, come se non ne avessimo già in circolo abbastanza. Offusca la credibilità delle istituzioni: passate, presenti, future. Dopo la pubblicazione delle telefonate fra Mancino e D’Ambrosio, chiama in causa perfino il Quirinale. Infine rimbalza come una palla di biliardo fra la cronaca e la storia, fra il tribunale dell’opinione pubblica e quello di Palermo. Insomma è diventato urgente distinguere i ruoli di ciascuno, restituire un ordine agli eventi. Ma per riuscirvi è necessario innanzitutto tenere separati i due piani su cui corre la vicenda: quello giuridico e quello, per così dire, etico-politico.
Primo: c’è qualcosa d’illecito nel chiedere un coordinamento delle inchieste giudiziarie, quando tre distinte procure (Firenze, Caltanissetta, Palermo) sono al lavoro sulle stesse notizie di reato? Perché è questa l’accusa che viene rivolta, sotto sotto, a Napolitano: di aver cercato di interferire con le indagini, e di averlo fatto per favorire un indagato, benché all’epoca Mancino fosse soltanto un testimone. Ma nella ormai celebre lettera del 4 aprile scorso – inviata dal Segretario generale del Quirinale al Procuratore generale della Cassazione – non c’era nient’altro che questo, un richiamo all’esigenza di coordinare le investigazioni in corso. Esigenza peraltro sancita da due testi di legge (i decreti legislativi n. 106 del 2006 e n. 159 del 2011), che ne rendono per l’appunto responsabile il Procuratore generale della Cassazione. E che in via generale Napolitano aveva già pubblicamente segnalato a più riprese al Csm: il suo primo intervento risale infatti al giugno 2009, ben prima che esplodesse questo caso. Mentre a sua volta Grasso, capo della Direzione nazionale antimafia, già nell’aprile 2011 ha impartito direttive ai procuratori interessati. Una prova in più che il problema è ormai da tempo sul tappeto, e non dipende dai pruriti di Mancino.
D’altronde si tratta di una massima di comportamento perfino banale: se la mano destra non sa che cosa stia facendo la sinistra, finiranno per intralciarsi a vicenda. Vale per la magistratura, vale per ogni altro potere. Tanto che la Consulta ha versato fiumi di inchiostro sul principio di leale collaborazione fra i poteri dello Stato. Ora, di tale principio proprio il Presidente della Repubblica è l’interprete supremo. Per il suo ruolo di cerniera fra tutti gli altri organi costituzionali, che resterebbero altrimenti sordi l’uno all’altro. Perché la Carta del 1947 assegna al Presidente il compito di riaccendere il motore delle istituzioni, quando il motore è in panne, quando gira a vuoto; anche sciogliendo il Parlamento, in casi estremi. E perché infine il Capo dello Stato è al contempo il più alto giudice italiano: non a caso presiede il Csm, l’organo di autogoverno della magistratura. Da parte sua nessuna interferenza, quindi. Semmai un richiamo, e una vigilanza, doverosi. Esercitati, inoltre, in modo trasparente, attraverso una lettera ufficiale che trasmetteva in copia la lettera spedita a Napolitano da Mancino, suo vecchio vicepresidente proprio al Csm.
Insomma, una bolla di sapone. E nessun illecito: perfino Antonio Ingroia, protagonista dell’inchiesta giudiziaria, ha affermato che la procura di Palermo non ha mai subito pressioni. Mentre ieri, sul quotidiano l’Unità, si è spinto addirittura a scrivere che trattare con la mafia non costituisce di per sé un reato. Aggiungendo che la trattativa Stato-mafia riempie una pagina di storia, che è interesse di tutti gli italiani leggere da cima a fondo. Sia detto allora con il massimo rispetto per questo magistrato: lasciamolo agli storici, il lavoro di ricostruzione storica. La magistratura si occupi piuttosto dei reati. E ai cittadini il giudizio sulle responsabilità politiche e morali, quando ci sono.

Il Corriere della Sera 21.06.12