Le sofferenze sociali e morali del paese sono profonde, acute, persino inedite. Più di quello che si pensi. Giungono dai territori, a volerle ascoltare, le grida di una comunità lacerata, delusa, smarrita. E quindi arrabbiata, incattivita. Ascoltare davvero questa sofferenza e farne il perno di tutto è il primo atto di rinnovamento della politica, il primo gesto di contrasto all’antipolitica. Bisogna capire questo malessere senza precedenti. Mai come ora non bastano le statistiche. Le aride cifre. Quanti disoccupati, quanti tagli alle spese sociali, quanti suicidi. C’è molto di più nel dramma di questi mesi.
Incontriamo giovani che ormai guardano direttamente all’estero, l’Italia non è posto per loro. Il giudizio è ormai definitivo: irrecuperabile. Fanno lavori sottopagati che li sottostimano. Lo spreco di conoscenze è pari al cinismo che spesso nasce dalla frustrazione. Conosciamo famiglie di lavoratori che vivono in apnea ansiosa, aggrappati ad un posto che può sparire, di colpo. E lavoratori precari ormai frastornati dalla spersonalizzazione del loro saper fare. Il mito della ‘mobilità professionale’ è già sfiorito.
Sentiamo di imprenditori che chiudono l’azienda pur avendo ordini, ma non il credito per realizzarli; o pensano di tenere a casa gli operai perché è meglio pagarli che produrre: in recessione i margini operativi non ci sono più e «tanto poi i compratori non ti pagano». Disperdendo quel tanto di cultura imprenditoriale che c’è nel Paese.
Leggiamo di amministratori locali che, non potendo più fare i bilanci, cercano risorse nei cavilli dei contenziosi fiscali e dei regimi sanzionatori, nel «corpo a corpo»con i cittadini che amministrano. Giocandosi il consenso e allargando il fossato democratico.
Insomma, dentro queste sofferenze c’è il corrodersi di rapporti e solidarietà sociali, quelli che avevano resistito persino al terrorismo. C’è l’impazzimento dei sistemi relazionali, perché ognuno pensa a salvar sé stesso. Illudendosi che possa funzionare. C’è la percezione che certe fratture siano ormai irreversibili e che soluzioni di governo non siano più possibili. Le risorse non ci sono. C’è l’implodere parossistico delle procedure, che si bloccano a vicenda perché nessuno si assume più una responsabilità.
Questa sofferenza parla alla politica con parole mai pronunciate prima, con categorie distanti anni luce dalle solite. L’antipolitica è anche la ricerca di questo nuovo vocabolario, poi c’è chi ci marcia sopra. Dire no al politicismo, come fa giustamente Bersani, è il primo passo. Poi c’è da costruire un pensiero ed un linguaggi nuovi. Tocca a noi.
l’Unità 18.06.12