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"Federazione zoppa", di Barbara Spinelli

Un primo segnale era venuto dalle presidenziali in Francia, all’inizio del 2012, quando si formò addirittura un fronte di Stati pro Sarkozy (Merkel lo guidava, secondo indiscrezioni dello
Spiegel, con a fianco Monti, Cameron e Rajoy) ma questa volta l’europeizzazione d’un voto nazionale è stata palese, l’intervento è avvenuto senza più veli diplomatici. Angela Merkel ha annullato una visita all’estero, come se l’evento avvenisse in casa, e alla vigilia del voto ha fatto il suo comizio nell’agorà ellenica: «L’Europa non è disposta ad aiutare ancora i Greci, se non rispettano tali e quali gli accordi presi». Minacciando il caos, ha invitato a votare solo i partiti «che non metteranno in questione i memorandum voluti dall’Unione ». Di per sé non è male che la politica dei singoli Stati non sia più introversa, falsamente immunizzata da intromissioni che vengono chiamate
straniere solo da chi s’incaponisce a inforcare gli occhiali delle sovranità nazionali assolute. La crisi ha definitivamente annientato sovranità logore sin dal dopoguerra, e logica vuole che non si parli di ingerenza, tantomeno straniera, in una comunità che sia pure parzialmente possiede il volto di una Federazione. Soprattutto non è male che ogni cittadino dell’Unione – in Italia, Spagna, Portogallo, Germania – senta che il verdetto democratico di Atene peserà su tutti noi, non diversamente dal peso crescente che avrà il voto nelle nostre nazioni.
Il guaio è che non è una Federazione compiuta ma zoppa, l’insieme di Stati che da giorni tremano per Atene. E quella che non dovrebbe essere ingerenza torna a essere intromissione di vecchio stampo, in tali condizioni. Hanno parlato capi di governo come la Merkel, ha pontificato il presidente della Bundesbank Jens Weidmann, rivolgendosi direttamente all’elettore greco (in un’intervista minacciosa su Kathimerini, il 15 giugno, estesa a Corriere della Sera, El País, Público), e naturalmente si sono fatti sentire i mercati, con movimenti di panico non sempre irrazionali. Hanno taciuto, attonite, le istituzioni comuni (Commissione, Parlamento europeo, Bce). Non è tipico di una Federazione – né di un’unione a metà strada fra Federazione e Confederazione di stati sovrani – che il capo del governo più potente imponga le sue convinzioni in nome dell’intera zona euro, come fosse un Presidente-garante eletto da tutti. Non è federale il comportamento di Weidmann, che si erge a portavoce di un organo comunitario (la Banca centrale presieduta da Mario Draghi) pur essendo un governatore come gli altri nell’eurosistema.
Ancor più ambigua, anzi asfissiante, è la filosofia che sorregge l’europeizzazione pur benefica delle politiche nazionali. Filosofia che potremmo riassumere così, ascoltando le parole dei più dogmatici in Germania: stare in Europa vuol dire
non negoziare mai quel che nell’Unione, man mano, è stato mal fatto. L’idea stessa di rinegoziare un patto o una linea politica è equiparata a condotta fedifraga, e come tale viene stigmatizzata. Questa è forse l’essenza delle federazioni, per Weidmann, ma con la democrazia ha poco in comune. Quando una strada si rivela fallimentare (ed è visibilmente fallimentare in Grecia, avendo aumentato la sua povertà, dunque il suo debito) non dovrebbe esser lecito vietare il rinegoziato, cioè la discussione di tale linea e la sua correzione. Democrazia è anche questo: si prova, si sbaglia, si rettifica, secondo il metodo sperimentale del trial and error.
È quello che ha detto Angel Gurria, segretario generale dell’Ocse (Organizzazione per la cooperazione economica e lo sviluppo), alla vigilia del voto greco. Se il futuro governo greco, quale che sia, sceglierà di restare nella moneta unica, vorrà modificare i termini del salvataggio fissati da Unione e Fondo Monetario: «Se questa è la condizione per scongiurare che Atene esca dall’euro, occorre darle un’opportunità di ricontrattare i prossimi aiuti» ( Kathimerini, 17-6-12).
Fa parte di un’ingerenza antiquata e zoppa non aver detto queste cose prima del voto.
L’elettorato doveva provare paura, e la deterrenza ha funzionato alla stregua di una minaccia atomica. Ora che il leader della destra Samaras ha vinto, gli stessi tedeschi allentano le briglie: nulla si ridiscute, ma un po’ di tempo bisogna darlo a Atene per ripagare i debiti («Ora dobbiamo venire incontro ai greci e rilanciare la crescita», dice a Andrea Tarquini, su questo giornale, Karl Lamers, ex consigliere europeo di Kohl).
Spiegel prospetta comuni emissioni di titoli del debito, anche se limitati e di breve durata (il nome è eurobond- light o euro-bill).
Almeno per ora, tuttavia, Berlino risponde no anche a questo.
Quand’è che in democrazia ci si rimette in questione, pena lo sfascio della democrazia stessa? Quando la linea imboccata naufraga, o quando un piano si rivela non tanto difficile quanto impossibile. Troppo facilmente tendiamo a considerare sinonimi i due termini: l’unione e l’accordo su un unico itinerario ritenuto giusto. Troppo facilmente il Syriza di Alexis Tsipras (e prima George Papandreou, quando voleva fare della questione greca una questione europea, attraverso un referendum sul cosiddetto salvataggio Ue) è stato trattato come partito anti-europeo, nonostante la sua richiesta fosse chiara: un cambio radicale di paradigma, nell’Unione, che non polverizzasse le periferie Sud accentuando diseguaglianze e squilibri. L’unione si cerca quando c’è disaccordo, non quando tutti fin da principio hanno già un’unica opinione: quella, ripetuta da anni come una litania, di Schäuble o della Merkel. C’è unione se si trova un’uscita dai conflitti che non sia cruenta né impraticabile; se esistono istituzioni sovranazionali capaci di armonizzare idee diverse e di rispettare – lo dice Lamers – «le condizioni di partenza di ogni paese»; se viene evitata la via imperiale del paese che decide al posto di tutti quale sarà la via aurea, di qui all’eternità. Quest’attitudine ancora non esiste, nell’Eurozona imperfetta cui apparteniamo: un’Eurozona con una moneta, 17 politiche economiche nazionali, una Banca centrale intimidita, nessun bilancio consistente in comune. È stato un errore di Syriza non aver insistito su questi punti.
Abbiamo parlato di cosiddetto salvataggio perché alla Grecia non sono stati garantiti salvataggi, come spiega da mesi l’economista greco Yanis Varoufakis. Non si può continuare a chiamare salvataggio una politica punitiva che non ha prodotto neppure una recessione (la recessione contiene sempre un’opportunità di autocorrezione) ma una vera e propria depressione, che trasforma la Grecia in un grande emporio della miseria ed è «del tutto priva di prospettive di redenzione».
Per affrontare simili dilemmi non basta l’intromissione ansiosa dei capi delle singole nazioni. Non basta neppure per calmare i mercati, che meglio dei governi capiscono, istintivamente, come il male dell’Europa sia innanzitutto politico, non economico. Occorre che nasca una vera agorà democratica in Europa, forte al punto di divenire un contropotere, di imporre un piano di crescita e un’Europa politica. Che in nome di tutti e non solo della Germania parlino le istituzioni sovranazionali (Commissione, Banca centrale). Che parli il Parlamento europeo, troppo silenzioso in tutta questa vicenda. Che i politici nazionali imparino a inforcare occhiali cosmopoliti, oltre a quelli che fanno vedere (con quale miopia!) i soli affari nazionali. Tutto questo ancora manca. Non c’è da lamentarsi se sulla scena europea restano, unici mattatori, solo Angela Merkel e Jens Weidmann

La Repubblica 19.06.12