Alla fine è uscito il decreto sviluppo. Fin dall’inizio abbiamo sostenuto che, accanto all’intervento riguardante la drastica riduzione delle spese pubbliche e l’aumento delle imposizioni, si dovesse porre anche un intervento a forte sostegno della crescita. Non avevamo mai creduto ad una fase uno e ad una fase due. Il decreto approvato in queste ultime ore continua a mettere insieme una varietà di strumenti fra loro molto differenziati, ognuno dei quali sicuramente utile, ma che tuttavia faticano ancora a definire una vera linea di crescita dello sviluppo produttivo. Sicuramente la spiegazione che ne viene data in premessa appare convincente: bisogna attivare molteplici leve non per stimolare la rianimazione di un corpo in coma, ma per stimolare le forze interne ad un’economia da troppo tempo assopita. Da oltre 20 anni infatti l’Italia cresce meno di altri Paesi proprio perché nei processi di apertura internazionale e di globalizzazione il nostro sistema produttivo si è divaricato segnando una frattura netta fra le imprese che hanno saldamente afferrato il treno della globalizzazione e quelle che invece lo hanno subito, schiacciandosi o in pozione subalterna di subfornitura di bassa qualità o ridotte nell’angolo di un mercato interno sempre più depresso dalle stesse azioni “risanatrici” dei governi. Sarebbe stata dunque opportuna una forte linea di azione per indicare come lo sviluppo del Paese si deve attestare su quelle attività di produzione e servizio che possono riposizionare sul mercato globale non solo i leader già esistenti, ma un numero sempre più ampio di operatori le cui produzioni sono ad alto contenuto di educazione e di intelligenza. Apprezziamo sicuramente gli interventi di sostegno alle assunzioni di profili altamente qualificati e quelli nel settore della green economy, ma riteniamo che su questo piano ci si potesse muovere con più forza, agendo con più decisione un aggancio con l’ambito della crescita sostenibile e con un ripensamento del Piano Industria 2015. Piano che, pur risalendo a diversi anni fa, se riletto con attenzione indica quanto in questi anni avremmo potuto muoverci nel difficile cammino di riposizionamento internazionale. Certamente la ricomposizione di tutti gli aiuti di stato risulta materia di grande utilità, se tuttavia posta al servizio di una visione di stimolo di tutte le imprese operanti nei diversi ambiti del sistema produttivo verso un fine non solo di generico rilancio, ma di ben più solido riposizionamento, ricordando che i 2/3 delle nostre esportazioni sono ancora a livello europeo. Il riferimento ai contratti di rete, alla internazionalizzazione e alla tutela del Made in Italy deve allora assumere un’enfasi ben maggiore di quanto appare almeno a prima vista in questo decreto. Il tema della dimensione di impresa resta essenziale per poter giocare in una situazione così complessa e non basta richiamare il termine fortemente evocativo della rete, bisogna invece riempire questi contratti con strumenti che favoriscano processi di aggregazione ben più solidi. Egualmente apprezziamo i diversi strumenti per il sostegno all’edilizia e la comparsa dei Project bond come strumento per il finanziamento di opere pubbliche, così come i Piani per lo sviluppo delle città e i Contratti di valorizzazione urbana. In tali materie il ruolo degli Enti locali e delle Regioni resta fondamentale e quindi è proprio nei loro confronti che bisogna dare un supporto anche di natura progettuale. Bisogna ricordare che questa enfasi sulla centralità delle città deve stare all’interno di una visione di forte valorizzazione del ruolo delle aree urbane per attrarre quei servizi avanzati, comprese tutte le iniziative legate alla creatività, che sono il vero seme del nuovo Made in Italy, di cui non sembra esservi attenzione adeguata in questo piano. Sarebbe stato opportuno enfatizzare di più la relazione tra queste misure e le azioni connesse con educazione e ricerca perché, in fondo, sono proprio l’educazione e la ricerca le uniche vere leve per una crescita non solo intelligente e sostenibile, ma anche inclusiva, stabilendo un quadro che risulti, già oggi, di riferimento per la nuova programmazione comunitaria 2014 /2020 in discussione e in avvio di trattativa a Bruxelles. Trovare un modo per mettere insieme gli strumenti che fanno capo al ministro dello Sviluppo economico e quelli del ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca implica necessariamente che il governo si posizioni su quel terreno che si chiama politica industriale, o meglio nuova politica industriale, in cui la differenza non è fatta dai sussidi e dagli incentivi, ma dalla capacità di orientare tutti i soggetti verso obiettivi comuni, enfatizzando i caratteri di specializzazione e complementarietà che caratterizzano i sistemi dinamici di produzione.
*Assessore scuola Emilia Romagna