La valutazione? «Occorre ricostruire il consenso di tutta la scuola». E poi il diritto allo studio e gli esiti del 3+2 nel sistema universitario; per finire con alcune proposte – molto dettagliate – di integrazione al decreto sull’emergenza terremoto. Sono questi alcuni dei temi «di stretta attinenza politica» rilanciati da Manuela Ghizzoni (Pd), neopresidente della Commissione Cultura della Camera dei deputati. Che sul punto è chiara: lavoriamo già – dice – per il nuovo Parlamento.
Onorevole Ghizzoni, quale impronta intende dare al suo mandato di presidenza?
So bene che ci troviamo nello scorcio di legislatura, ma questo non ci impedirà di lavorare. Innanzitutto, credo sia necessario concludere l’iter di una serie di provvedimenti che sono aperti da tempo e dei quali auspico l’approvazione. In secondo luogo, la Commissione deve riprendersi il proprio ruolo: se manca il tempo di aprire nuovi cantieri legislativi, occorre nondimeno aprire una riflessione su temi importanti di stretta attinenza politica.
Veniamo ai primi. A cosa si riferisce?
Penso alla proposta di legge sullo spettacolo dal vivo, sulla quale esiste una condivisione ampia da parte delle forze politiche. Mi auguro che trovi quanto prima il suo naturale compimento. Le risorse da investire ci sono, intendiamo chiudere presto consegnando la proposta in Senato. Penso anche alla legge sulla costruzione degli stadi e al testo di riforma degli organi collegiali (la proposta di legge 953 «Aprea»,ndr).
E per quanto riguarda i temi politici?
Ritengo importante, ad esempio, che la Commissione nella sua totalità apra una riflessione su alcuni temi chiave come il diritto allo studio e i diritti degli studenti, la valutazione nei percorsi di formazione e gli esiti del «3+2» nel sistema universitario. Sono tutti ambiti che meritano una adeguata riflessione politica. Non ne ho ancora discusso con i capigruppo, ma auspico di ricevere un sostegno in questo senso. Mi piacerebbe che fosse un lavoro utile per tracciare nuovi scenari di intervento. Sarà l’eredità che lasceremo al nuovo Parlamento.
La valutazione è un tema controverso. Eppure non possiamo farne a meno, lo ha detto anche l’Europa quando Monti si è insediato. Lei che ne pensa?
Il lavoro che dovremmo fare, anche a supporto delle strutture che già esercitano il loro mandato di valutazione, dovrebbe essere quello di capire perché valutare. Sembra scontato, ma non lo è. La valutazione è un esercizio importante che attiene anche alla responsabilità sociale e alla rendicontazione sociale del proprio lavoro: un fatto di grande importanza nel settore della conoscenza. Ma prima di dividersi su forme e metodi di valutazione, torno a dire, occorre riflettere di nuovo sul perché valutiamo.
Secondo lei in questi anni è mancato qualcosa?
Sì: un dibattito e una condivisione sul punto, soprattutto nel mondo della scuola. Non parlo dell’università, che ha dinamiche sue proprie e non è estranea all’idea di una valutazione anche esterna. Ma per la scuola è diverso. La valutazione serve, e deve servire, come strumento per migliorare il sistema, non per punire alcuni o talune strutture. Invece, la percezione che essa potesse esser usata come arma punitiva ha suscitato in questi anni l’opposizione di una parte di mondo della scuola, famiglie e personale docente.
Qual è il contributo che può venire dalla sua Commissione?
Io credo che la Commissione, con gli strumenti che abbiamo a disposizione, potrebbe favorire questo confronto in modo che il mondo della scuola, nella sua complessità, discuta e affronti il tema della valutazione.
Ma chi doveva fare che cosa?
È un lavoro che toccava a suo tempo alla politica. Avrebbe dovuto farlo il ministero, aprendo spazi di confronto reale; non i soliti tavoli che si aprono per non arrivare ad una sintesi del problema. Si tratterebbe ora di individuare le priorità, costruendo insieme, attraverso un confronto, i percorsi più idonei per raggiungere gli obiettivi comuni.
Quali sono questi obiettivi?
Ricostruire il consenso di tutta la scuola sulla necessità di valutare e di essere valutati. Il passaggio è delicato perché non stiamo parlando di valutare un giovane a fine anno, ma un intero sistema. Rendere pubblici i dati, non farlo, etc. è un falso problema. Ragioniamo prima sugli obiettivi, e se c’è condivisione, sugli strumenti. Avremmo raggiunto un grande risultato se ci trovassimo d’accordo che la valutazione è un processo non divisivo, ma che unisce.
Cosa può dire invece della riforma degli organi collegiali (il pdl Aprea, ndr)?
Il testo originario è stato profondamente trasformato durante la discussione avvenuta nel comitato ristretto. Credo che quando le forze politiche concordano nelle modifiche ad un disegno di legge, sia naturale un suo miglioramento. Ritengo che quel testo sia migliore di quello iniziale presentato dall’onorevole Aprea; immagino che la proponente non sia della stessa opinione, ma il testo licenziato dal comitato ristretto tiene conto di tutti i pareri raccolti dai vari portatori di interesse durante la lunga fase di audizione.
Secondo lei cambierà ancora?
Ancor prima che la passata presidenza avesse termine, le forze politiche dichiaravano la disponibilità a procedere in sede legislativa. Giovedì scorso si è votato sulla mozione di incostituzionalità presentata dall’Idv, l’iter continuerà tra un paio di settimane. Se le forze politiche − e lo dico da presidente − troveranno intese per ulteriori modifiche, si procederà in questo senso.
Profumo ha confermato più volte di voler indire nuovi concorsi. Qual è la sua opinione in merito?
La questione è complessa. Devo però fare una premessa. Personalmente ritengo, a differenza di molti altri, che la cosa migliore per la scuola sia quella di avere docenti formati e reclutati in modo unitario, e cioè che la formazione non possa essere disgiunta dal reclutamento. Ahimè, non è stato così: il Tfa ha spezzato una unitarietà che doveva esserci e che considero un’occasione persa.
Lei cosa avrebbe fatto invece?
Sarei per un percorso che dopo la laurea specializzi gli aspiranti docenti e selezioni coloro i quali hanno le competenze migliori e l’attitudine all’insegnamento per inserirli in un adeguato processo di «formazione in azione» nelle scuole, come facenti parte dell’organico funzionale; al termine di questo percorso, svolto all’interno dell’istituzione scolastica, avviene il reclutamento del corpo docente. Mi limito a far notare che attualmente la situazione è divenuta molto, troppo complessa. Abbiamo graduatorie ad esaurimento con moltissimi precari concentrati in alcune classi di concorso a discapito di altre, praticamente esaurite; un precariato storico da smaltire; misuriamo l’effetto di una riduzione draconiana dell’organico voluta dal precedente governo, che ha di fatto determinato un rigonfiamento delle Gae.
E adesso?
I giovani che non hanno potuto conseguire l’abilitazione attraverso le vecchie Ssis hanno diritto di veder valutata la loro attitudine e di misurarsi con la possibilità concreta di poter insegnare.
Lei è di Carpi (Modena) ed è stata eletta in Emilia-Romagna. Com’è la situazione delle scuole nelle zone terremotate?
Si è ormai conclusa la ricognizione del patrimonio scolastico. Conosciamo il numero di edifici che sono di fatto da demolire − poco meno di cento e mi riferisco al solo dato dell’Emilia-Romagna, che presenta il maggior numero di province coinvolte − e in questo caso l’unica cosa da fare è una rapida ricostruzione. Accanto agli edifici che hanno retto bene al sisma perché di costruzione recente, esiste un’ampia fascia di edifici sui quali occorrerà intervenire con opere straordinarie per consentirne la riapertura in condizioni di totale sicurezza.
Chiederebbe qualcosa in particolare?
Raccomanderei che, in sede di conversione del decreto, si facesse un’opportuna riflessione su questo punto. Per rimettere in condizioni di agibilità l’edilizia scolastica occorre un investimento significativo e pertanto, oltre alle risorse già individuate in prima battuta nel decreto, sarà necessario reperirne ulteriori da destinare specificamente a questa voce di spesa.
E per quanto riguarda il patrimonio artistico e architettonico?
Si tratta di un patrimonio, oltre che di valore intrinseco, fortemente identitario per le comunità colpite. Penso che il decreto, benché rappresenti una prima risposta importante all’emergenza, sugli interventi a sostegno del patrimonio sia carente e che pertanto in sede di conversione vada ulteriormente rafforzato.
In dettaglio?
Andrebbero inserite norme specifiche che consentano di potenziare il personale tecnico delle direzioni regionali alle quali compete il coordinamento degli interventi − architetti, storici dell’arte, funzionari amministrativi − per implementare le squadre che svolgono i rilievi di accertamento dei danni subiti dai singoli beni e indicano i primi interventi urgenti. Occorre forse ricordare che parliamo di migliaia di emergenze: sono circa 2mila i beni tutelati che hanno riportato danni, più tutti i beni ecclesiastici. E per potenziare il personale occorre fare due cose: consentire nuove assunzioni straordinarie, e autorizzare il personale delle altre soprintendenze d’Italia a svolgere missioni in Emilia-Romagna.
Uno sforzo economico non indifferente.
Ci sono, ad esempio, i 160 milioni risparmiati dal finanziamento dei partiti. Poi, come parlamentari dell’Emilia-Romagna, stiamo disponendo una spending review per individuare altri specifici capitoli di finanziamento. Non possiamo non affrontare questa spesa, seppur ingente. Dobbiamo predisporre un piano pluriennale per ripristinare un intero patrimonio, che parla di quei territori più di ogni altra cosa. Un conto è la risposta all’emergenza, altra cosa è il dopo.
(Federico Ferraù)
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