Presentati ieri a Roma i dati sui consumi culturali nazionali nel 2011 il bilancio è positivo: rinunciamo a tutto, ma non a mostre e teatro. Con i tempi che corrono, trovare un pezzo di economia in crescita non è facile. Eppure ne esistono, e ne esiste uno in particolare: la cultura. Considerata per anni un pozzo senza fondo di spese, maltrattata ai tempi di Giulio Tremonti, ministro dai superpoteri sui conti pubblici, che sosteneva che con la cultura non si mangia, ora i dati del rapporto annuale di Federculture sostengono proprio il contrario.
Sono in aumento i visitatori alle mostre (+14%) e nei musei (+7,5%). Successo costante per eventi e Festival (+10% il Festivaletteratura di Mantova. Gli italiani hanno le tasche vuote, hanno tagliato le spese in vestiti ma non quelle sulla cultura. La spesa delle famiglie nel 2011 ha sfiorato i 71 miliardi di euro con un +2,6% rispetto al 2010.
Tutto andrebbe a meraviglia se oltre agli italiani, che come consumatori e come sponsor non hanno mai smesso di crederci, anche i governi si impegnassero con politiche di sviluppo. Di fronte all’indifferenza e alla noncuranza pubblica gli sponsor stanno scappando: sono calati dell’8,3% rispetto al 2010, in caduta libera (-38,3%) se si guarda al 2008.
Come sottolinea Federculture, diminuiscono le sponsorizzazioni, perchè le imprese hanno meno soldi ma anche per «lo scenario di incertezza per il calo dell’intervento pubblico che scoraggia l’intervento dei privati». Secondo l’associazione, quindi, è necessaria «una politica pubblica» per la cultura ed invece negli ultimi dieci anni il bilancio del ministero della cultura è diminuito del 36,4%, arrivando nel 2012 a 1.425 milioni di euro contro i 2.120 del 2001. Per il settore lo Stato investe solo lo 0,19% del suo bilancio.
Da questo punto di vista, c’è da invidiare i bei tempi del Dopoguerra: nel 1955, quando ancora non si immaginava il boom che sarebbe arrivato di lì a poco, l’Italia investiva in cultura lo 0,8% della sua spesa totale, il quadruplo di oggi. E non è solo una miopia ministeriale, anche i comuni hanno tagliato: gli investimenti per la cultura scendono al 2,6%.
Contraddizioni e amarezze anche per quel che riguarda l’export italiano di beni creativi che aumenta dell’11,3%. L’Italia per il design è il primo paese esportatore, tra le economie del G8. Anche in questo caso però, fa notare Roberto Grossi, presidente di Federculture, manca all’appello la politica: «Il settore delle industrie culturali e creative, oggi stimato valere il 4,5% del Pil europeo e il 3,8% degli occupati totali, sarà nei prossimi anni in grande espansione. Ma mentre gli altri Paesi, nostri concorrenti, hanno già fatto delle scelte, noi non abbiamo ancora cominciato a discutere».
In Italia esiste anche un’emergenza educativa: «Nell’ultimo anno sono crollate le immatricolazioni negli atenei» e nessun istituto del nostro Paese rientra nella classifica internazionale delle migliori Università (Bologna, che è la prima, si ferma alla posizione numero 183).
Il nostro Paese «è a un bivio», avverte Grossi che chiede «non soldi che sappiamo non ci sono, ma politiche coraggiose».
«Il coraggio? – risponde il ministro dei Beni Culturali Lorenzo Ornaghi – È una grande virtù, di questi tempi necessaria, ma che va misurata poi con la realtà. E questo vuol dire cercare le risorse quando non ci sono, adoperare bene quelle che ci sono ed essere convinti che la cultura richiede anche quella antica virtù che è il realismo».
Unica promessa che si riesce a strappargli: la defiscalizzazione degli investimenti in cultura.
La Stampa 13.06.12