Da qualche giorno si parla, non senza speranza, della proposta avanzata il 7 giugno da Angela Merkel alla televisione tedesca. Un’unione economica e politica dell’Europa, grazie alla quale la moneta unica potrà sormontare i propri squilibri, l’indebitamento degli Stati diverrà comune debito europeo, l’Unione potrà emettere eurobond garantiti solidalmente, sorvegliare le banche unificandole. L’obiettivo sarebbe una Federazione, ottenibile attraverso nuove graduali cessioni di sovranità nazionali: ancora in mano agli Stati, esse sono impotenti di fronte ai mercati. La terra promessa è bella, ma è tutt’altro che chiaro se il Cancelliere voglia, e presto, quel che annuncia. Se non stia guadagnando tempo, dunque perdendolo. Comunque, l’idea è di sfidare il suo principale interlocutore: il nuovo Presidente francese. Ricordi, la Francia, che se l’Europa non si fa la colpa è sua, non dei tedeschi. È da decenni che Parigi avversa cessioni di sovranità, e ora è messa davanti alle sue responsabilità. Né pare recedere: due ministri, degli Esteri e dell’Europa, votarono contro la Costituzione nel 2005.
La rigidità francese è certo corresponsabile del presente marasma — Hollande potrebbe prendere sul serio la Merkel, costringendola a fare quel che dice di volere — ma se ascoltiamo le parole del Cancelliere e soprattutto quelle di Schäuble, ministro del Tesoro, il piano somiglia molto a un villaggio Potemkin: un prodigio, ma di cartapesta. Di poteri rafforzati delle istituzioni europee la Merkel parlò il 14 novembre 2011 (al congresso democristiano), e poi in una conferenza a Berlino il 7 febbraio, ma mai l’idea divenne formale
proposta. Il più esplicito è stato Jens Weidmann, governatore della Bundesbank. Subito dopo l’elezione di Hollande, ha scelto la tribuna di
Le Monde,
il 25 maggio, per stuzzicare i francesi: mettere in comune i debiti, ha detto, è impossibile senza Federazione. «Perfino nei paesi che reclamano gli eurobond, come in Francia, non constato su questo tema né dibattito pubblico, né sostegno popolare a trasferimenti di sovranità». Il fatto è che nella posizione tedesca c’è qualcosa di profondamente specioso, e insensatamente lento. Intervistato dall’Handelsblatt, il 5 giugno, Schäuble afferma che l’unione politica è un
progetto di lungo termine.
Prima bisogna vincere la crisi: ogni Stato con le sue forze, e con piani di austerità che pure hanno mostrato la loro inanità. Fanno male, i piani? Sfiniscono i popoli, e aumentano perversamente i debiti nazionali? Il ministro lo nega: quasi sembra considerare la sofferenza un prelibato ingrediente della rinascita europea. La domanda frana nei paesi indebitati? Niente affatto: «I programmi non diminuiscono il potere d’acquisto, siamo solo di fronte a crisi di adattamento». L’Unione crollerà? Anche questo viene negato: «I grandi scenari apocalittici non si sono mai inverati».
La negazione dei fatti, unita a un impressionante oblio storico (come si fa, in Europa, a dire che gli scenari apocalittici
non si sono mai inverati?):
sono gli elementi che impregnano oggi la posizione tedesca. Se questa appare così immobile, è perché un dogma la paralizza. È il dogma della «casa in ordine», in voga tra gli economisti tedeschi dagli anni ‘20: se ogni Stato fa ordine come si deve,
la cooperazione internazionale funzionerà e a quel punto si penserà all’unione politica, all’unione bancaria per far fronte alla crisi spagnola, alle misure per l’Italia pericolante. Come spesso accade ai dogmi, essi contengono incongruenze logiche e un’abissale indifferenza al divenire storico.
Il difetto logico, spesso sconfinante nell’ottusità, è palese nel ragionare dei vertici tedeschi. Si riconosce che l’euro senza Stato è zoppo, si rievoca quel che Kohl disse a proposito dell’unione politica, necessario complemento della moneta unica. Per la Merkel come per Schäuble, tuttavia, l’unione ha senso dopo che gli Stati avranno aggiustato le finanze: non diventa
lievito della ripresa,
ma si aggiunge ex post,
quasi un premio. Che significa, allora, dire che l’euro senza Stato è il vizio d’origine dell’unione monetaria? Se i rimedi ai vizi sono rinviati, vuol dire che non sono ritenuti farmaci cruciali. Cruciale è il giudizio dei mercati, non arginabili con un cambio di paradigma nella costruzione europea. Cruciale è il culto del dogma, impacchettato con carta europeista in modo da imbarazzare i francesi. È quel che Walter Benjamin, in un frammento del 1921, chiama
religione del capitalismo:
quest’ultimo diventa «puro culto», che non redime ma colpevolizza soltanto. Non a caso, dice Benjamin,
Schuld
ha in tedesco due significati: debito e colpa.
La smemoratezza storica non è meno funesta. Berlino dimentica
non solo gli anni ‘20, quando le furono imposte riparazioni non sostenibili e il paese precipitò nel nazismo. Dimentica anche quel che fu il piano Marshall, nel dopoguerra. Charles Maier, storico a Harvard, spiega che il piano funzionò perché non era condizionato: le riforme sarebbero venute col tempo, grazie alla ripresa europea. Oggi toccherebbe alla Germania avere quell’atteggiamento, che legò riduzione dei debiti e rimborsi dei prestiti alla crescita ritrovata. Scrive Maier: «Gli europei dovrebbero ricordare il monito di George Marshall, nel ‘47: “Il paziente sprofonda, mentre i dottori deliberano” » (
New York Times,
9-6-12). Anche Obama, quando invita i tedeschi a crescere di più e fa capire che è in pericolo la sua rielezione, è privo di visione lunga. Il vissuto del dopoguerra, la leadership americana che incitò all’unificazione europea, è scordata. Solo ieri la Casa Bianca ha menzionato, auspicandola, l’unione del nostro continente. Gli uomini degli anni ‘50 che Jean Monnet cita nelle
Memorie,
(John McCloy, consigliere di molti Presidenti; Dean Acheson, segretario di Stato; David Bruce, ambasciatore Usa in Francia) è come fossero ignoti. Nè sembra dir qualcosa, a Obama e agli europei, la storia stessa dell’America: il passaggio dalla Confederazione di Stati sovrani alla Federazione che Hamilton (allora segretario al Tesoro) accelerò nel 1790 cominciando col mettere in comune i debiti accumulati durante la guerra d’indipendenza.
Il discorso che Thomas Sargent ha tenuto in occasione del premio Nobel per l’economia, nel dicembre 2011, evoca quell’esperienza a uso
europeo. Fu la messa in comune dei debiti a tramutare la costituzione confederale in Federazione. Fu per rassicurare i creditori che venne conferito alla Federazione il potere di riscuotere tasse, dandole un bilancio comune non più fatiscente. Solo dopo, forti di una garanzia federale, gli Stati si prefissero nei propri ambiti il pareggio di bilancio, e nacque la moneta unica, e si fece strada l’idea di una Banca centrale.
Invece di preoccuparsi dei
poteri forti,
Monti ha una grande opportunità: preparare per il prossimo vertice Ue una controproposta europea, basata sul rilancio, la comunità delle banche, la parziale comunitarizzazione dei debiti, da presentare insieme ai governi che lo desiderano, Grecia in primis. I veri poteri forti non sono in Italia. Vale la pena prospettare — non in conferenze ma ai partner — un’unione politica vera.
Non un’unione di cartapesta, ma un piano che dia all’Unione le risorse necessarie, il diritto di tassare più in Europa e meno nelle nazioni (a cominciare dalla tassa sulle transazioni finanziarie e le emissioni di biossido di carbonio), e metta il bilancio federale sotto il controllo del Parlamento europeo, come suggerisce lo storico Maier. Oggi l’Unione dispone di risorse irrisorie (meno del 2 per cento del prodotto europeo), come l’America prima di Hamilton.
Se la Merkel non ci sta, gli Stati favorevoli
si contino,
nel Consiglio europeo. Non succede il finimondo se Berlino è messa in minoranza. Accadde ai tempi dell’euro con la Thatcher. Il primo che in Europa farà votare su proposte serie passerà alla
storia.
La Repubblica 13.06.12