Ho vissuto gli anni bui del fascismo ma poi l’Italia è rinata dopo la guerra. Mi ricordo le leggi razziali: la mia professoressa di Scienze, Enrica Calabresi, venne allontanata perché ebrea e si suicidò in carcere. Però, dopo 20 anni da incubo, il Paese si è rialzato. Ai giovani dico: affrontate la vita come una gara.
Oggi compio novant’anno. Si può dire che ho vissuto quasi un intero secolo. Anzi, se mi guardo indietro e torno con la memoria fino ai racconti che mi faceva il babbo quando ero piccolina, mi sembra di aver vissuto più d’un secolo.
Il babbo mi raccontava della miseria che c’era nel nostro Paese dopo la prima guerra mondiale, dei tanti disordini e degli scioperi continui che resero possibile l’avvento del fascismo. Tutta la mia infanzia l’ho vissuta sotto il fascismo, per la verità senza capire molto di quello che accadeva. Ricordo le ultime elezioni del ’29: un nostro conoscente ci raccontava che le schede erano semitrasparenti, quelle a favore del fascismo avevano un tricolore disegnato sopra, quelle contrarie erano bianche, cosicché anche quando erano chiuse si vedeva in trasparenza per chi avevi votato. Ricordo i quaderni di scuola con le frasi del duce: «È l’aratro che traccia il solco, ma è la spada che lo difende», «Credere, obbedire, combattere», «L’impero è tornato a risplendere sui colli fatali di Roma». E ricordo i temi che ci chiedevano di fare, quasi tutti improntati all’esaltazione della patria fascista. Il sabato si andava a scuola in divisa e si doveva marciare, per noi era un divertimento: meglio marciare che stare seduti sui banchi.
Cosa fosse il fascismo l’ho capito solo nel ’38 con la promulgazione delle Leggi Razziali. All’epoca andavo al liceo e avevo una professoressa di scienze che si chiamava Enrica Calabresi. La vidi sparire da un giorno all’altro, era stata cacciata dalla scuola perché ebrea. Avevamo anche compagni, amici ebrei che da quel momento furono costretti a nascondersi. Cominciai così a capire la pazzia di quel regime sotto il quale i cittadini erano trasformati in sudditi senza nessun diritto. Chi fosse veramente la professoressa Calabresi e che fine avesse fatto l’ho capito solo molti anni dopo. Stavamo registrando una trasmissione tv assieme a Piero Angela alla Specola di Firenze e lì incontrai due studiose che avevano condotto una ricerca. Scoprii così che Enrica Calabresi era una brava ricercatrice che aveva pubblicato già all’epoca una cinquantina di lavori originali di entomologia e che aveva ottenuto il titolo di libero docente, equivalente all’attuale dottorato di ricerca. Poi la lettera in cui si diceva che l’incarico di docenza decadeva in quanto la professoressa era di razza ebraica. Un titolo guadagnato con l’impegno veniva tolto perché si era di un’altra religione. La professoressa Calabresi venne arrestata nel 1943 e si suicidò dopo 20 giorni di carcere.
I GIORNI DEI BOMBARDAMENTI
Ricordo gli ultimi tempi prima dello scoppio della seconda guerra mondiale e la speranza che Mussolini ci ripensasse. Poi ricordo la guerra: l’oscuramento, i bombardamenti, le tessere per prendere qualsiasi cosa. Ricordo le grandi ristrettezze in cui vivevamo, si ascoltava Radio Londra per sapere davvero come stavano andando le cose e si tenevano sempre le finestre ben chiuse. Finalmente ho visto il dopoguerra. Il 1945 fu un periodo di grande entusiasmo e di curiosità. C’erano capannelli nelle strade con la gente che discuteva, alcuni ci raccontavano i programmi dei partiti che allora ci sembravano tutti uguali. Ricordo i giorni del Referendum per scegliere tra repubblica e monarchia: andavamo a fare sondaggi nei seggi per capire come fosse andata. E ricordo quando arrivarono finalmente i risultati: la monarchia, complice del fascismo, se ne andava. Cominciava un periodo di grandi iniziative, di voglia di lavorare e ricostruire. Era un’Italia molto viva. Bisognerebbe ritrovare l’energia di allora per cavarcela anche oggi.
Ho assistito a grandi cambiamenti di costume nel corso della mia vita. Quand’ero giovane c’era una grande differenza tra le classi sociali e si vedeva. Basti pensare che le signore borghesi, anche piccolo borghesi, non uscivano mai senza cappello. Senza cappello andavano le operaie e le donne di servizio. Ricordo che anche mia madre, che pure non era molto attenta a queste formalità, il cappello lo portava sempre. Io, però, non l’ho mai portato.
Negli anni successivi, sotto l’azione di due grandi forze democratiche, il Pci e la Dc, l’Italia avanzò in molti campi. A cominciare dall’istruzione: la scuola media diventò uguale per tutti. Era una cosa importante perché permetteva di scegliere cosa fare da grandi a 13-14 anni e non a 10 come prima. Tutti avevano diritto all’istruzione fino a 13 anni e questo riduceva le differenze di classe. Anche il diritto di famiglia è cambiato radicalmente. Ricordo quando nel passato era il marito a scegliere la residenza e la moglie lo doveva seguire. Esisteva il delitto d’onore e la donna veniva punita diversamente dall’uomo e con maggiore severità in caso di adulterio.
E poi in questi ultimi anni ho assistito a enormi cambiamenti tecnologici. Sembra poco tempo fa quando negli anni Settanta avevo una collaborazione con il dipartimento di astronomia di Princeton nel New Jersey e ci si scambiava per posta i nastri magnetici. Ci mettevano settimane per viaggiare sull’Oceano e ci dovevamo raccomandare che non venissero fatti passare nello scanner. Oggi si comunica in tempo reale con Internet, si parla e ci si vede in tempo reale. Le distanze sono state quasi eliminate. Per non parlare dei grandi progressi che sono stati fatti nel campo della strumentazione, non solo nell’astrofisica.
Insomma, quello che ho visto è stato un secolo estremamente vivace, con cambiamenti più grandi di quelli avvenuti nei 2.000 anni precedenti. Ora guardo al futuro e sono ottimista. L’Italia ne ha viste tante e si è sempre tirata fuori. Certo, negli ultimi anni abbiamo assistito alla finanza allegra, alla mancanza di rispetto per le leggi e per lo stato, ma io credo che ce la caveremo ancora una volta.
Ai giovani vorrei dare un consiglio: scegliere la professione che interessa di più. Quando dovrete decidere cosa studiare, non pensate solo a cosa vi permette di trovare lavoro, ma a quello che vi piace veramente. Poi fatelo seriamente. Alle ragazze, in particolare, consiglio di avere più fiducia in se stesse e pretendere che i loro diritti vengano rispettati. E, da ex sportiva, voglio dare un ultimo consiglio a tutti: affrontate la vita come s’affronta una gara. Con la voglia di vincere.
l’Unità 12.06.12
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“Novant’anni a rimirar le stelle”, di Giovanni Caprara
Il cielo brilla sempre negli occhi di Margherita Hack. A volte nel ricordo lontano di una ricerca, altre per lo stupore che ancora nasce davanti al buio di una notte stellata. Tuttavia c’è sempre il disincanto, il razionale piacere, mai la cieca passione che snatura le cose. Oggi Margherita, «Marghe» per gli amici, compie novant’anni e la sua lunga storia (Nove vite come i gatti, Rizzoli, pp. 133, 16), affidata alla lieve penna di Federico Taddia, appassiona soprattutto perché dalle pagine esce una «scienza della vita» come da lei interpretata e vissuta.
Bambina a Firenze, dai genitori raccoglie principi di correttezza, la scelta vegetariana per amore degli animali ma non lesina un giudizio di stranezza per le loro idee teosofiche. Nelle letture non è attratta dalla fantascienza e all’astronomia ci arriva per caso. Iscritta a Lettere, alla prima lezione ascoltava Giuseppe De Robertis: «Un professorone che scriveva sempre sulla terza pagina del “Corriere della Sera”. Parlò per un’ora di Pesci rossi, una raccolta di scritti di Emilio Cecchi. Mi annoiai a morte e capii subito di aver fatto un errore madornale». E ricordandosi della scienza in cui riusciva bene al liceo, studiava fisica. Le stelle caddero sui libri solo alla tesi, quando interessata a una ricerca sulla nascente elettronica si vedeva ordinare un’indagine sulla vecchia, polverosa e ottocentesca elettrostatica. «L’argomento non mi interessa» comunicò al relatore senza lasciargli possibilità di replica.
Così incidentalmente dal momento che «non sono mai stata una di quelle ragazze che si squagliavano di romanticherie sotto il firmamento, preferivo alzare il naso per aria e dare una possibilità a una scienza che fino allora non aveva avuto particolare importanza nella mia vita». Era attratta dalle «splendide anomalie» ed esplorava i segreti delle stelle Cefeidi, orologi cosmici nel loro regolarissimo brillare. Ricorda il professor Abetti, una «mosca bianca tra i baroni» che all’osservatorio di Arcetri le chiedeva con umiltà di spiegargli che cosa stesse studiando. E gli incoraggiamenti a compiere esperienze straniere. Volerà a Parigi e poi lascerà Arcetri lanciando una frecciata al successore di Abetti, Guglielmo Righini «innamorato del dio Sole».
Con Aldo, il compagno di giochi infantili diventato il compagno della vita, si trasferirà all’osservatorio di Merate dove un «barone vero», di cui non scrive neanche il nome, vorrebbe impedirle di compiere nuove esperienze in altri Paesi. Però Margherita va, inesorabilmente. Prima in Olanda, poi negli Stati Uniti, a Berkeley. Qui stringe amicizia con l’astronomo russo Otto Struve fuggito in America dove il suo nome era già noto, durante la rivoluzione bolscevica. Ed è lì che raggiunge la sua scoperta sulla stella Epsilon Aurigae, anomala perché ogni 27 anni dimezzava la luce. Lei ne capirà il perché ma dovrà attendere quasi trent’anni prima che l’intuizione venisse confermata dai satelliti.
La sua seconda impresa è la rinascita dell’Osservatorio di Trieste dopo l’arrivo nel 1964 e «distrutto da un altro vero barone». Da allora il golfo e il mare diventeranno il suo mondo. Un mondo nel quale emergono, al di là del cielo, «la responsabilità sociale delle persone di scienza» e la necessità del raccontare: «Divulgare ha una profonda valenza democratica, poiché prima di tutto vuol dire condividere». Ed è quello che farà con ogni mezzo, articoli, libri, radio, conferenze, senza sosta come se il tempo non passasse. Unico rammarico la forzata rinuncia agli sport amati.
Ma nelle ultime pagine non risparmia una critica nemmeno al presidente Mario Monti sulla monotonia del posto fisso: «Perché ci siamo fatti convincere che la chiave del futuro risiede nella mobilità sfrenata?». E dopo i novant’anni? «Proseguirò il lavoro, parlando di scienza e della mia vita in tutti i suoi aspetti. Non ho paura della morte».
Il Corriere della Sera 12.06.12