Che la promozione del merito sia importante nelle scuole, nelle università e nella ricerca siamo tutti d´accordo. Almeno in teoria. Perché poi, quando dalla teoria si passa alla pratica, tutto diventa molto più complicato, più difficile, più inestricabile. Anche solo perché non esiste una definizione oggettiva e universalmente condivisa del merito. E anche quando si tratta di valutare il lavoro universitario di un collega, non si sa mai bene se si deve privilegiare l´aspetto qualitativo o quello quantitativo, il numero di articoli scritti o l´interesse del loro contenuto. Quanto agli studenti, sembra più facile valutarne il merito. Ma anche lì… Merita ad esempio di più chi si impegna senza grandi risultati o chi riesce facilmente senza impegnarsi?
Certo, bisogna stare attenti a non fare l´elogio della mediocrità o del «tutto si equivale». Nonostante queste perplessità, infatti, sempre meglio il merito che il nepotismo. Sempre meglio il merito che le raccomandazioni. Soprattutto in un Paese come l´Italia in cui, in questi ultimi anni, si è assistito ad una tale confusione dei ruoli che i giovani non sanno veramente più a che santo votarsi per capire come fare per avere un lavoro o perché le proprie competenze siano riconosciute, prese in considerazione, valorizzate.
Meglio il merito, quindi. Tranne quando dal merito si glissa progressivamente verso la nozione di eccellenza, di cui oggi tanti responsabili politici, economici e culturali si riempiono la bocca. Perché allora cominciano (o continuano) i veri problemi. Visto che l´eccellenza, a differenza del merito, rinvia non solo al valore individuale o collettivo dell´educazione e della ricerca, ma anche e soprattutto alla competizione, alla lotta, alla gerarchia, alla dominazione. È il modello dello sforzo e del sacrificio: fin dalla più tenera età si deve tendere alla perfezione. A qualunque costo. Poco importa le conseguenze. Perché prima o poi lo sforzo sarà ricompensato e poi, in questo mondo competitivo e senza pietà, solo i migliori possono sopravvivere.
È in fondo il modello dell´homo homini lupus, anche se la guerra permanente non è più la caratteristica di uno stato di natura da cui si deve uscire grazie al contratto sociale, ma la proprietà stessa del contratto che gli adulti devono firmare con i giovani fin dall´inizio: se vuoi essere amato devi sforzarti! Vi siete mai chiesti che fine hanno fatto i famosi “primi della classe”? Quanti di loro, oggi, occupano veramente posizioni di responsabilità? Quanti sono sopravvissuti e a quale prezzo?
In fondo, tra l´eccellenza scolastica e la performance aziendale non c´è poi molta differenza. Anche se citare l´eccellenza sembra più appropriato quando si parla di educazione, di scuola, di ricerca. Anche se l´eccellenza sembra meno egocentrica e meno individualistica della performance. Anche se l´eccellenza non sembra in contraddizione con la fiducia e la cooperazione. Eppure è proprio così. Perché per eccellere non bisogna fidarsi di nessuno. Per eccellere non bisogna mai abbassare la guardia o cedere alle lusinghe della collaborazione. Ma come può avanzare la ricerca senza cooperazione? Come si può anche solo sperare di trasmettere il sapere quando si cerca di mettere tutti in competizione contro tutti per nominare lo “studente dell´anno”?
Questo tentativo di spingere anche l´università e la ricerca verso la «competitività e l´eccellenza» mostra bene che l´ideologia dominante resta quella manageriale e aziendale degli ultimi anni. L´ideologia della perfezione e della performance. Un´ideologia che, nonostante tutto, non è riuscita ad evitare la crisi profonda di cui oggi stiamo pagando le conseguenze. Anzi. Forse è solo uscendo da questa ossessione dell´eccellenza che si potranno poi ripensare le basi di nuovo vivere-insieme.
La Repubblica 08.06.12