Il vecchio asse Pdl-Lega è ancora attivo. E produce danni. A dispetto di tanti propositi bellicosi, il gruppo del Carroccio in Regione Lombardia ha ieri rinnovato la fiducia al presidente Formigoni, mettendolo così al riparo dalla mozione delle opposizioni. In contemporanea i senatori leghisti, protetti dal voto segreto, hanno salvato dagli arresti domiciliari Sergio De Gregorio, sovvertendo così il parere della Giunta per le immunità.
Non è più una maggioranza di governo – essendo stato travolto Berlusconi dal disastro interno e dal discredito internazionale – tuttavia è una maggioranza occulta, che in talune circostanze viene attivata a beneficio dei soggetti interessati.
Questa maggioranza intermittente è una minaccia per il governo Monti. Ne può minarne le fondamenta. A meno che qualcuno non pensi che il governo dei tecnici, in fondo, abbia da guadagnare con il degrado delle istituzioni politiche. E che il privilegio concesso al senatore De Gregorio di sottrarsi alla richiesta d’arresto e alle pesanti accuse – come nessun altro cittadino avrebbe potuto – verrà alla fine addebitato ai soli «partiti», magari a tutti i partiti indistintamente. È vero che nelle classi dirigenti di questo Paese si coltiva una strana cultura dell’irresponsabilità, in base alla quale il primato dei tecnici si sposa con l’esaltazione di Grillo. Come dire che tutto va bene purché non si ripristini una normalità democratica e una autonomia delle istituzioni rappresentative. Ma c’è un limite al cinismo. La ragione del governo tecnico, oltre che nel fronteggiare la drammatica emergenza di un’Europa in deficit di politica, sta esattamente nel favorire il ripristino di una competizione tra alternative democratiche, plausibili, collegate alla dialettica europea. Una competizione che il Porcellum e la torsione plebiscitaria del nostro sistema rischiano di rendere impossibile.
A nove mesi dalla fine della legislatura è bene non dimenticare questo principio. Oggi Monti sta opportunamente correggendo la rotta della politica europea, aiutato dalla vittoria di Hollande. Ma non può disinteressarsi di ciò che accade in quel Parlamento che sorregge il suo governo. Ciò che è avvenuto ieri è un colpo duro. E sarebbe ancor più duro, pure per lui, un fallimento delle riforme elettorali e istituzionali. L’asse occulto Pdl-Lega, infatti, è ora alla prova del presidenzialismo. Ieri il partito di Berlusconi ha presentato la sua proposta per l’elezione diretta del Capo dello Stato: pochi emendamenti il cui effetto sarebbe un cambiamento radicale della Costituzione. E il messaggio era rivolto innanzitutto a Maroni, Bossi e compagnia. Servono i voti leghisti per far passare in Senato quei correttivi, il cui effetto pratico sarebbe mandare a monte ogni tentativo di riforma in questa legislatura.
La soluzione presidenzialista non ci ha mai convinto. Per la nostra storia, per la stessa tenuta della nostra società continua ad apparire più idoneo il sistema parlamentare voluto dai padri. Semmai va reso più efficiente, ammodernato, dotato di quegli strumenti che pure vennero indicati alla Costituente (l’ordine del giorno Perassi) ma mai attuati. Ciò non vuol dire che il presidenzialismo è antidemocratico. È un’alternativa di sistema possibile: tuttavia va calibrata con robusti contrappesi, da norme stringenti sui conflitti di interesse a forti garanzie sui poteri neutri e di controllo. Il presidente della Repubblica-garante non è una figura che si può smantellare con un emendamento: è la testa di una filiera di garanzia, senza la quale l’intera seconda parte della Costituzione andrebbe riscritta.
Amiamo troppo la Costituzione italiana per non augurarci che di presidenzialismo non si debba mai parlare. Tuttavia, se ci fossero le condizioni per un confronto costruttivo, non potrebbe che essere la prossima legislatura ad assumersi un compito di revisione. È impensabile che in poche settimane si possa compiere un simile, approssimativo stravolgimento della nostra Carta fondativa. Piuttosto l’obiettivo pare un altro. Più ravvicinato, più cinico: impedire le riforme possibili (innanzitutto la legge elettorale) e un governo normo-dotato nella prossima legislatura.
Ancora non sappiamo se la Lega ripeterà lo sgambetto che fece alla Bicamerale nel ’98. Speriamo che il Pd non smetta di cercare una soluzione: va bene anche una riforma elettorale imperfetta, purché somigli ad una qualunque delle leggi che regolano i maggiori Paesi europei. Solo da noi si combinano maggioritario di coalizione e liste bloccate: da solo il Porcellum toglie molto ossigeno alla politica. Poi, certo, la politica ha una partita più importante da giocare. È la battaglia della sopravvivenza. O sarà capace di ridare una missione all’Europa, di guidarla, o la sconfitta dell’euro diventerà pesante come una guerra del Novecento. Le riforme sono una questione domestica. Ma sono una condizione del riscatto nazionale. Speriamo che anche nel centrosinistra, tra discussioni sulle primarie e strategie elettorali, non si smarrisca l’ordine di priorità. Il tema è dare al Paese una prospettiva democratica e un vero rinnovamento.
l’Unità 07.06.12