Proprio perché ho pubblicato recentissimamente su queste colonne una specie di elogio della scuola pubblica italiana (“Tra quei banchi si vede l´Italia, la Repubblica, 2 giugno 2012), sono rimasto di stucco leggendo il giorno dopo sul medesimo giornale che l´attuale ministro della Pubblica istruzione, Profumo, ha inserito tra le misure più appariscenti della sua riforma l´incoronazione, istituto per istituto, dello “studente migliore dell´anno”. Ho passato la mia infanzia e la mia adolescenza a tentare di conseguire, dalla prima elementare alla terzo liceo classica (ahimè, riuscendovi) il riconoscimento, implicito, certo, ma anch´esso prestigioso, di “primo della classe”. So bene, dunque, di che si tratta. Solo quando sono arrivato all´Università ho capito che avere compagni migliori, e ne ho avuti, era molto meglio che dannarsi ad essere il migliore. Vorrei dire ora che tra le visioni della scuola (visioni del mondo?), che il ministro Profumo ed io nutriamo, c´è un abisso, anzi un antagonismo insormontabile. L´idea che si migliora la scuola trasformandola in una corsa a ostacoli è letale. L´impressione positiva che io volevo trasmettere, ricavandola dall´esperienza di passaggi (rapidi, ma non superficiali né da una parte né dall´altra) in quindici-venti istituti medi superiori italiani (ma ultimamente ho spiegato Dante anche in una scuola media unica di Roma!), era esattamente opposta. E cioè: ci sono, nella scuola pubblica italiana, masse di presidi e di docenti che si battono con silenziosa lena per “tirar su” classi intere di alunni, molto bravi, bravi e meno bravi, perché solo quello sforzo comune è scuola: e perché solo quello sforzo comune fa emergere le eccellenze vere (senza coltivazione di “migliorismi” di quarta generazione: sembra una novità assoluta, ed è un ritorno al più antico e deprecabile passato).
Se le cose in alto stanno così, l´idea con cui concludevo il mio precedente articolo, secondo cui sarebbe opportuno riaprire una grande discussione su cos´è e cosa dev´essere la scuola pubblica italiana, mi sembra meno fuori luogo oggi di ieri.
La Repubblica 05.06.12