I fondi vanno reperiti riducendo la spesa pubblica corrente e con la revisione di alcune priorità del governo
Il terremoto in Abruzzo, tragedia umana che sovrasta qualsiasi monetizzazione dei danni, colpisce l’Italia nel mezzo di una crisi finanziaria mondiale ed europea aumentando le nostre difficoltà rispetto a quelle che condividiamo con altri Paesi. Pur in un momento così doloroso e difficile, vi sono tuttavia segnali che il nostro Paese può uscire da questa situazione. Si dirà che questo ottimismo della volontà, pur necessario, è solo verbalmente contrapponibile al pessimismo della ragione che, invece, dovrebbe prevalere nella sostanza. Non crediamo sia così perché vi sono dati di fatto che depongono a favore della nostra capacità di ricostruzione post-terremoto e di ripresa post-crisi purché siano soddisfatte certe condizioni. Fatti e condizioni sono un binomio che si coniuga con un altro: quello tra organizzazione e risorse. Vediamo come.
Ricostruzione post-terremoto. Un dato di fatto molto positivo è il comportamento degli abruzzesi, degli italiani, del governo e dell’opposizione: ammirevole in vari casi e apprezzabile in altri. Marginali, anche se gravi, i tentativi di speculazione politico-mediatica; efficienti la protezione civile, i vigili del fuoco, le opere di soccorso; dedicate le associazioni di volontariato; evidente la solidarietà nazionale. Speriamo che si continui così e che l’opera di ricostruzione, che sarà lunga e costosa, soddisfi certe condizioni. La prima è organizzativa e riguarda la continuità nell’azione di governo. Possibile poiché questa maggioranza e questo esecutivo dovrebbero durare fino alla scadenza naturale della legislatura nel 2013, data entro la quale andrebbe completata la ricostruzione attraverso una stretta collaborazione tra Stato, Regione, Municipalità. Speriamo che prevalga il modello Friuli e non quello Irpinia.
Perché le risorse – ed è questa la seconda condizione – non bastano per la ricostruzione. Stando ai casi passati, ci vorranno comunque svariati miliardi di euro. Non potendo aggravare la fiscalità generale (e fatta salva l’opportuna opzione del 5 per mille che potrebbe essere temporaneamente aumentato) i fondi vanno reperiti con la riduzione della spesa pubblica corrente e con la revisione di alcune priorità del governo tra cui il Ponte sullo Stretto di Messina. Senza entrare nel merito di questa discussa opera, che ha dei pregi se la gran parte del suo finanziamento venisse da capitali privati e dai ricavi, riteniamo il rinvio a tempi migliori degno di considerazione. Se è vero infatti che l’opera è in ideazione da almeno 4 decenni, allora vuol dire che non è un’urgenza nazionale mentre gli 1,3 miliardi stanziati dal governo in marzo potrebbero servire in Abruzzo.
Ripresa post-crisi. Un dato positivo ci viene dall’indicatore composito dell’Ocse, ente spesso critico verso l’Italia, che evidenzia i segnali anticipatori di svolta nei cicli economici. Da un lato tale indice ci classifica come tutti gli altri Paesi sviluppati ancora in fase di forte rallentamento ma da un altro lato ci posiziona meglio degli altri. Più precisamente: il nostro Paese, seguito dalla Francia, è quello che ha avuto il minor deterioramento su base annuale mentre nell’ultimo mese è l’unico che mostra un piccolo miglioramento. Cauti sintomi di attenuazione della crisi vengono notati anche dalla Banca d’Italia e da una indagine sulle vendite al dettaglio che rileva in gennaio un rallentamento nella caduta aggregata ed una crescita, per la prima volta da quattro mesi, in 5 su 14 categorie di prodotti.
Altro segnale positivo è la notevole riduzione del differenziale di rendimento tra i titoli di Stato decennali italiani e quelli tedeschi che misura il maggior rischio gravato su di noi dal mercato e che, dopo essere arrivato in gennaio a massimi intorno a 1,7 punti, nei giorni scorsi è sceso sotto 1,20 punti. Questi dati non vanno certo sopravvalutati perché altri che ci riguardano non sono positivi, specie sotto il profilo strutturale di lungo termine. Tuttavia nella crisi si è vista una certa resistenza della nostra economia, la moderazione degli italiani che non hanno assunto comportamenti ribellisti o disfattisti o di panico, la adeguatezza delle politiche economiche e sociali adottate.
In conclusione. La ripresa di un nostro durevole sviluppo dipenderà dall’avverarsi di almeno due condizioni: dall’andamento dell’economia europea ed internazionale per l’uscita dalla crisi; e per quanto spetta a noi, dalle politiche strutturali di legislatura. A questo proposito bisogna tenere la rotta fissata nel Documento di programmazione economica e finanziaria del giugno 2008, che se non «regge» più per le cifre resta valido invece per la sostanza (con pochi aggiustamenti). Segnaliamo in merito a questi una urgenza: i rischi del nostro sistema manifatturiero orientato alle esportazioni per il quale andrebbero concepiti forti incentivi che favoriscano gli accorpamenti di imprese purché innovativi e in grado di mantenere i livelli occupazionali.
Sappiamo che sono misure difficili per un Paese gravato dal nostro debito pubblico il cui rapporto con il reddito, dopo l’inevitabile aumento del 2009, andrà di nuovo piegato al ribasso. Ma si tratta di misure che possono essere rese possibili con un’operazione di organizzazione istituzionale più volte avviata e mai conclusa. La razionalizzazione e la produttività della spesa pubblica da un lato e il recupero dell’evasione e del sommerso dall’altro. Se si riuscisse, grandi sarebbero allora gli effetti finanziari, economici e civili per l’Italia.
Corriere della Sera, 15 aprile 2009