Ci stanno impartendo una lezione di vita. Non solo di sopravvivenza. Di vita. Questi sfollati che si spaventano ma non vogliono dare soddisfazione alla paura. Che piangono senza piangersi addosso. E che ricominciano a vivere, nonostante. Nonostante sia un cumulo di macerie, il supermercato di Mirandola funziona ancora: a cielo aperto. Hanno portato per strada le merci, i carrelli e naturalmente la cassa. Bisogna pur nutrirsi, coprirsi, curarsi. I verbi primordiali del vivere continuano a essere declinati al presente e al futuro, nonostante.
Amare, per esempio. Alice e Davide hanno confermato le nozze, nonostante la chiesa abbia perso un po’ di mattoni e il ricevimento sia stato dirottato fra le tende. Per la luna di miele si vedrà. Intanto c’è il miele, appena arrivato con il latte e i biscotti da Reggio Emilia sopra un Tir. E c’è la luna, che splende in un cielo di promesse e trema molto meno della terra.
La gastronomia di Medolla sforna gnocchi fritti, nonostante. Nonostante la gastronomia sia diventata una cucina da campo in mezzo alla piazza del municipio. Potrebbe accontentarsi di fare panini e invece preferisce esagerare.
E la merciaia? Ha pianto tanto e dormito in automobile con il marito più anziano di lei. Ma ieri ha riaperto bottega perché le donne del terremoto sono scappate di casa senza ricambi e si mettono in coda sotto il sole per fare incetta di mutande e reggiseno, nonostante.
La regina del marketing è la fruttivendola biologica che alle ciliegie sopravvissute alla scossa impone il cartello «duroni della rinascita», trasformandole nel frutto della riscossa. Intorno a lei scene di gentilezza e onestà che altrove sarebbero straordinarie, ma non qui, nonostante. Un cliente vuole un chilo di mele però non può pagarle perché il bancomat ha esaurito i soldi. La fruttivendola: «Le prenda lo stesso, pagherà domani». E lui: «Ci mancherebbe, vado a cercare un altro bancomat».
Poi ci sono i bambini che giocano, nonostante. E le loro mamme che cercano di trasformare il terremoto in uno spettacolo d’arte varia. Al piccolo che dopo una scossa di assestamento frignava, la mamma ha spiegato: «Adesso ti insegno un nuovo gioco. Il gioco del salterello». Il bimbo ha smesso di piangere. «Che gioco è?» «Funziona così: io canto una filastrocca e ogni volta che mi fermo, tu salti». La mamma si fermava ogni volta che c’era una scossa. Così le scosse sono diventate una parte del gioco e il bambino si è riempito talmente di gioia che non ha trovato più posto per la paura. E ha continuato a saltare, nonostante.
La Stampa 01.06.12
******
“Sikh, romeni e musulmani L’immagine simbolo del sisma”, GIANNI RIOTTA
Ogni terremoto ha una sua immagine, che rimane per sempre, nel ricordo e nella storia. Di Messina, 1908, stima delle vittime tra 90 e 120.000 morti, abbiamo vecchie pellicole color seppia con i marinai russi della flotta del Mediterraneo, agli ordini dell’ammiraglio Livtinov, che con le corazzate Slava e Cesarevic e l’incrociatore Makarov portano i primi soccorsi. Del Belice, 1968, ricordiamo Cudduredda, la bambina di Gibellina che, estratta viva dalle macerie, muore in braccio a un vigile del fuoco piangente, il cronista Sergio Zavoli a due passi. L’Irpinia ci scuote con il grido di denuncia dei ritardi nei soccorsi del presidente Pertini, il Friuli per l’ordinata ripresa, l’Aquila con il frontone del Palazzo del Governo demolito, metafora dell’Italia smarrita.
Se dovessi scegliere un’immagine tra quelle che ho visto in giro per San Felice, Mirandola, Cavezzo, Medolla, nella Bassa Modenese, penserei ai sikh, gli operai venuti dal Punjab a lavorare da noi, seguaci della religione fondata nel XV secolo dal Guru Nanak Dev Ji, con i loro turbanti, persuasi che la fede in un dio supremo, e una vita laboriosa e onesta, siano destino dei giusti. Hanno pregato insieme per un loro compagno caduto in un capannone. O i ragazzi rumeni che chiedono alle telecamere: «Inquadrateci, poi diteci quando andiamo in onda e così mamma vede che siamo vivi». O i maghrebini: saldatori, vetrai, manovali che, incrociando le schede telefoniche, provano a rassicurare casa.
Meriterebbero di andare nell’album di una tragedia tutti i 17 morti, i 350 feriti, i 15.000 sfollati che il Fato ha tolto a una routine bonaria di dovere, famiglia, benessere. I tecnici del business biomedicale, il secondo del pianeta, che al telefono raggiungono i clienti in tutto il mondo, valvole cardiache, strumenti per la dialisi, rassicurando che presto la produzione ripartirà. Sanno che milioni di malati, in cinque continenti, hanno bisogno dei loro prodotti, sanno che in sei mesi possono perdere il mercato a vantaggio dei concorrenti, sanno che tantissimi in Italia vivono dei frutti della valuta che importano. Chiamano Los Angeles, Pechino, Melbourne dalla tenda in via Libertà di Cavezzo, dal campo di calcio di Mirandola, dalla roulotte: «Tutto ok, gli ordini partono prestissimo, davvero tutto a posto qui, business as usual…» e controllano i figli sul prato. Ho visto gli anziani, con la cannula dell’ossigeno, in cerca di farmaci mentre il dottor Borelli di Medolla, farfallino al collo, si sgola per far arrivare una farmacia mobile. Chi ha bisogno di un catetere, chi soffre il caldo della tenda, chi deve andare in ospedale per le piaghe. Nessuno si lagna, generazione Giobbe.
Gente come il giornalista Carlo Marulli, tra i fondatori del quotidiano «Il Foglio» a Bologna nel 1975, con gli intellettuali del Mulino, Pedrazzi e Gorrieri, poi alle riviste della satira, Il Male, Cuore, e ora in campagna nella Bassa, che dai tweet @carlomarulli illustrati con irriverenza dai baffi di Stalin, sfollato con una figlia piccola, nota come sembrino «allegri i parchi pieni di tende», con gli anziani a chiacchierare e i bambini, felici di non avere scuola, a contendersi le altalene.
Un’illusione di festa, certo, una sagra paesana che la dignità emiliana tiene moltissimo a rappresentare davanti ai forestieri, ma la tragedia incombe nella domanda che è diventata saluto: «La casa è su?». «La casa è su» vuol dire la vita riprenderà presto, «la casa non è su» allunga la precarietà. La comunità tiene insieme tutti: lacrime, sorrisi, pacche sulla schiena. Forse la crepa più profonda, su cui noi dinosauri dell’informazione e pronipoti del web dovremmo insieme riflettere, con umiltà, è quella che divide la realtà in Emilia dalla sua rappresentazione nei media. Parata sì, parata no del 2 Giugno sui siti: in Emilia nessuno ne parla. Un pensionato mi ha detto: «Senta, al massimo, visto che non vogliono a Roma le Frecce tricolori che a me piacciono tanto, perché non le mandano qui a sorvolare l’Emilia, a salutarci, il 2 giugno? Mi promette di farlo sapere al presidente Napolitano?». Mantenuto, signor Guido.
Capannoni sicuri o no: in Emilia tutti son certi che ora non son più sicuri, ma, come dicono al Genio Civile, «prima li testavamo contro il vento, il solo rischio, erano a norma delle leggi che esistevano, chiaro adesso non vanno più bene». Potete eccepire a questa logica? Non nella Bassa.
Forse la foto che simboleggia insieme la Bassa, l’Emilia e l’Italia 2012 è quella della Rocca Estense a San Felice sul Panaro. Capolavoro dell’ingegnere militare Bartolino da Novara, così d’avanguardia che nel 1404 sa trasformare in arma strategica perfino gli argini del Po. Tre crepe, una da destra, una da sinistra, la terza dal basso, la lacerano senza rimedio. Ogni scossa la fa tremare. Da lontano i curiosi si chiedono come stia in piedi. «Sembra il vaso dei fumetti di Tom e Jerry – dicono tutto crepato, appena lo tocchi va in pezzi». Invece, finora, resiste, simbolo delle coscienze che la circondano. Potrebbe essere domani, 2 giugno, simbolo della Repubblica italiana, ricca di genio, antica di storia, maestosa per bellezza, spaccata dalle crepe della corruzione, dell’egoismo, dell’ingiustizia, scossa dalla rissa politica, eppure in piedi, bellissima.
La Stampa 01.06.12
******
“Basta con le esagerazioni l’Emilia non è scomparsa”, di Michele Brambilla
Nelle ultime due settimane in Emilia Romagna ci sono stati 24 morti e danni per svariati miliardi di euro; gli sfollati sono quindicimila. Bastano queste cifre per dire che una situazione è grave e degna di attenzione da parte di tutti gli italiani? Evidentemente no, non basta. Così sono giorni che in tv, alla radio e sui giornali si sente parlare di «interi paesi cancellati dalle carte geografiche», o più sobriamente «rasi al suolo». Ho sentito dire che Cavezzo, dov’ero appena stato, «non esiste più». Ci sono titoli sui siti web – anche, ahimè, dei grandi giornali – che parlano di migliaia di emiliani che «soffrono la fame», di «assalti di sciacalli alle case danneggiate».
Mi domando se chi dice e scrive queste cose sia stato davvero in questi giorni a Mirandola, Cavezzo, Rovereto sul Secchia, Medolla, Carpi. Paesi che hanno subito danni ingentissimi e molti lutti: ma che esistono ancora. Paesi popolati da persone in difficoltà: ma non ridotte alla fame. Paesi in cui i capannoni crollati sono per fortuna una piccolissima percentuale, non la norma. Paesi in cui le abitazioni private hanno tenuto, grazie al cielo: anzi, grazie agli emiliani che le hanno costruite meglio che altrove.
C’è stato un terremoto, e basterebbe usare questa parola, terremoto: ce ne sono molte altre che incutono più terrore? E invece no: si parla di inferno, di un mondo spazzato via, di un’intera regione in ginocchio. Non è così: provate a girare per tutta l’area, da Modena fino su ai paesi dell’epicentro, e vedrete un film che non è quello che viene raccontato. Un film drammatico, certo. Ma perché dire e scrivere che è come il Friuli, l’Irpinia, L’Aquila? In Friuli ci furono mille morti, centomila sfollati, 18.000 case completamente distrutte, 75.000 gravemente danneggiate. In Irpinia tremila morti, 280.000 sfollati, 362.000 abitazioni distrutte o rese inagibili. L’Aquila è ancora oggi, quella sì, una città in ginocchio. L’Emilia no: la gente che vi abita ha paura, e questo è comprensibile, ma le grandi città sono intatte, il 95 per cento dei paesi pure, eppure l’altra sera in tv abbiamo sentito parlare (testuale) di «una regione distrutta».
Tutto viene enfatizzato a dismisura, a partire dalla paura della gente, che già ha buoni motivi per avere paura. L’altra notte l’ho trascorsa in piedi fra la gente in tenda. Una notte certamente disagevole, soprattutto per la preoccupazione per il futuro. Ma non ho visto alcuna scena di panico. La mattina alle nove accendo la radio e sento: «Notte di terrore nelle tendopoli per sessanta nuove scosse». Che ci sono state, ma non tali da essere percepite.
Non si tratta di sminuire la gravità di quello che è accaduto, ma di evitare che ai danni del terremoto si aggiungano quelli di un’informazione drogata. L’altra sera parlavo con Michele de Pascale, assessore al Turismo del Comune di Cervia. Mi diceva di non capire la contraddizione: «Stiamo accogliendo nei nostri alberghi gli sfollati perché qui da noi sono al sicuro. Poi riceviamo disdette per quest’estate: i clienti hanno sentito in tv che l’Emilia è distrutta. L’altro giorno un albergatore mi ha detto che lo hanno chiamato dalla Germania per annullare la prenotazione e hanno chiesto: ma siete ancora vivi?».
Domande alle quali ne aggiungo una diretta umilmente alla categoria di cui faccio parte: vogliamo davvero aiutare gli emiliani a ripartire? Atteniamoci ai fatti. Sono già abbastanza gravi che non c’è bisogno di metterci il carico.
La Stampa 01.06.12
******
I riflessi sociali La fuga degli immigrati: “Qui si rischia troppo”
Allarme manodopera: 3-4 mila famiglie verso il rimpatrio volontario
di Marco Alfieri
L’economia rischia di subire ulteriori ripercussioni dalla fuga degli immigrati
13% degli occupati, questa la percentuale di lavoratori stranieri presenti nelle aziende dell’Emilia. Molti stranieri hanno già lasciato l’Emilia. Il distretto conta 53 mila addetti per 142 milioni di euro di contributi previdenziali. Molti piccoli centri tornati a vivere grazie a loro ora potrebbero sguarnirsi”. Qualcuno la chiama la diaspora degli stranieri, altri direttamente la fuga. «Dopo la botta di martedì i miei 4 operai romeni e indiani sono scappati via, da 3 giorni non ho notizie…», racconta Sergio Ratti, titolare dell’omonimo salumificio di San Biagio, specializzato nella lavorazione e vendita di carni, pollame e insaccati.
Sami invece è un ragazzone ghanese di 24 anni, in Italia da 3. «Lavoro in una azienda ceramica», dice trafelato col vassoio in mano della mensa mobile vicino a Novi. «Mia moglie e mia figlia sono già ripartite, vediamo che succede ma qui si rischia troppo…». Vicino a Medolla, al caseificio Speciale di Camurana, mancano all’appello due lavoratori cingalesi. Anche loro fuggiti, sembra in collina…
Quel che ha cominciato a fare la crisi tre anni fa – nel cratere del mostro s’incrociano decine di cartelli affittasi e di costruzioni invendute che hanno portato al taglio di 1.200 posti di lavoro stranieri nei cantieri -, rischia di completarla il terremoto. Il modenese è una provincia di grande densità migratoria. «La forza lavoro extracomunitaria conta 53 mila addetti per 142 milioni di contributi previdenziali. Vale circa il 13,5% del totale occupati», spiega Ermes Ferrari degli artigiani Cna. Ma nei comparti ceramico, meccanico, edilizio, lavorazione carni e agricoltura salgono al 20%. A spanne indiani e pakistani nelle stalle; romeni, tunisini e marocchini nei campi e nel mattone; ghanesi, cinesi e cingalesi nei cicli di lavorazione pesante e nell’agroalimentare. Nei distretti del sisma ci sono interi paesi quieti e multietnici che adesso rischiano di sguarnirsi.
«Alcune stime parlano di 300 marocchini che starebbero rimpatriando mogli e bambini solo tra qui e San Felice», spiega una maestra della scuola di lingua per stranieri di Mirandola. Manca un censimento ma basta farsi un giro per trovare conferme. L’altro ieri girava per le tendopoli il console tunisino, offrendo viaggi gratis di rimpatrio.
Abdel, marocchino smilzo di 27 anni, lavora in un’aziendina che fa zincature a caldo. Il capannone è lesionato, non si può entrare e Abdel vorrebbe scappare via. «Molti miei amici nella meccanica se ne sono già andati in auto», racconta mentre insegue il figlioletto in bici per il campo tende davanti alle scuole di San Felice. Alcuni stranieri arrivano per il pranzo, altri dormono in auto, hanno la casa rovinata. Seduto su una sedia sotto un albero c’è Hosni, tunisino. Parla un buon italiano. «Sono qui da 12 anni», dice. Fa l’operaio alla fonderia Scacchetti e sta ancora pagando il mutuo della casa. Ha due figli e la moglie che lo guarda da lontano dalla fila del bagno chimico. «I primi ad andarsene martedì sono stati i moldavi, poi polacchi e ucraini», ci spiega con il fare di chi la sa lunga. «I maschi di solito lavorano nei campi, le donne fanno le badanti o il lavoro domestico». Sono ventimila nel Modenese. Un esercito rosa al servizio di bambini e anziani. Ma dipende anche dalle etnie. La notte del 20 maggio, quando è arrivata la prima scossa, a Carpi e Mirandola gli unici bar che hanno aperto per dare ristoro alla gente scesa in strada erano quelli dei cinesi cuor di leone. Però nelle fabbriche, nelle stalle e nei caseifici è un’altra cosa.
Umberto Franciosi della Flai Cgil di Modena ammette la fuga. «Gli italiani hanno la rete familiare, chi la casa in Romagna per tenersi distanti dalle angosce chi gli amici pronti ad ospitarli, gli stranieri no». Sono soli pur pagando un prezzo altissimo al terremoto con 3 morti (il marocchino Mohamad, il pachistano Kumar e il cinese Hou) e tanti feriti. «E’ comprensibile che qualcuno scappi via per la paura».
Nella tendopoli di piazza del mercato a San Felice, il 70% degli accampati è straniero, gli avvisi comuni sono scritti in doppia lingua, italiano e cinese. Nico sta posteggiando la sua Renault Clio davanti al recinto. E’ romeno, il figlio più grande di 12 anni con la maglietta di Ronaldo gli va incontro. «Lavoro alle Officine Borsari di Cavezzo, ringraziamo i volontari che ci assistono ma è vero che molti stanno partendo», ammette quasi a disagio. «Se continua questa psicosi potrebbero andarsene 3-4mila famiglie straniere», impoverendo le filiere produttive del territorio.
L’incertezza è una brutta bestia. A Migliarina di Carpi, sulla strada per Guastalla, c’è Italcarni, il più grande centro di macellazione dell’Emilia Romagna. 14-15mila suini macellati la settimana e poi consegnati a prosciuttifici, salumifici, industria della trasformazione e grande distribuzione. Lo stabilimento ha riaperto ieri mattina dopo due giorni di stop per le verifiche. «La struttura ha tenuto, è caduto solo un pezzo di controsoffitto in mensa», spiega l’ad Roberto Carù. In Italcarni ci lavorano 250 addetti ma più del 20% è straniero. Ci sono indiani, pakistani, cinesi e nordafricani. «Qualcuno oggi manca all’appello nel reparto produzione – continua l’ad -, la paura di rientrare è tanta…».
A Finale Emilia, altro comune piegato dal sisma, anche l’assessore alle Attività Produttive, Angelo D’Aiello, conferma la fuga. Oltre al dramma umano, sarà un problema in agricoltura. «Tra qualche settimana, non sarà facile trovare braccianti per la cura dei campi e la raccolta frutta…».
La Stampa 01.06.12