“La Padania esiste, è qui e va capita”
Ma quindi, signor sindaco, intendiamoci: possiamo rompere un tabù e titolare quest’intervista “cari amici del Pd, la Padania esiste”?
Sergio Cofferati ci pensa un attimo perché, come un fulmine, forse gli ripassano per la mente i dubbi che ebbe prima di sgombrare un campo di immigrati e dire “cari compagni, la sicurezza non è un valore della destra” (affermazione oggi scontata, ma allora accompagnata da fischi e accuse di tradimento); o quando, non troppi mesi dopo, decise di sperimentare lì – a Bologna – la “vocazione maggioritaria” del Pd, rompendo la sua alleanza con la cosiddetta sinistra radicale. Dunque, Cofferati ci pensa. E poi si apre in un calda risata. «Ma certo che sì, la Padania siamo noi. Guardi che io son di lì, nato a Sesto e Uniti, provincia di Cremona, in mezzo ai contadini…».Ci vorrà forse del tempo perché anche quest’affermazione – “la Padania esiste” – venga digerita come ineluttabilmente vera. Ma per Sergio Cofferati è importante che ciò avvenga: e che il Pd ne tragga ogni conseguenza, in termini di analisi politica, proposta istituzionale e assetto organizzativo. La Padania esiste, e lo dimostrano perfino i risultati elettorali: se è così, non ha senso negarlo sol perché ne ha parlato prima la Lega… Ed è soprattutto della Lega – oltre che della Sinistra Arcobaleno – che Sergio Cofferati parla in questa sua intervista dopo il voto del 13 aprile.
Però che c’entra, scusi, la Padania col risultato elettorale?
«C’entra perché credo che ormai occorra analizzare anche i risultati elettorali non più regione per regione ma area per area. Se noi osservassimo le cose un po’ più dall’alto, ci accorgeremmo che quel che accade sulla sponda destra del Po succede anche sulla sponda sinistra…».
Sarà. Ma che c’entra col voto?
«In grandi aree del nord ci sono ormai elementi di uniformità dettati dalla struttura economica e sociale: e per queste due vie, producono risultati elettorali. Se si guarda la pianura… Cremona e Reggio Emilia, oppure Mantova e Ferrara – che sono città di regioni diverse – hanno una strutture economica, sociale e risultati elettorali del tutto simili».
Tutto questo per dir cosa?
«Che gli elementi di identità territoriale non sono più rappresentati dai confini geografici e regionali. Le persone si muovono… Il Po divide, fa da separazione per alcuni tratti, ma è una separazione geografica che non ha più alcuna corrispondenza né economica né sociale. Per venire al concreto: io penso che non ci possa organizzare efficacemente sul piano della rappresentanza considerando invalicabili i confini geografici.
Di più: credo che ormai sia in divenire anche una questione di carattere istituzionale. Dunque, quando penso alla dimensione territoriale del futuro Pd, penso a due cose assieme: agli antichi insediamenti ottocenteschi della rappresentanza politica – luogo per luogo, paese per paese – e ai modernissimi scavalcamenti di confini geografici e regionali ormai fittizi. L’Emilia Romagna è parte del nord e ha caratteristiche di sviluppo, in alcune sue zone, simili a quelle della Lombardia. La collina emiliano romagnola ha forti elementi di somiglianza con la collina bergamasca e bresciana; e la pianura lombarda con la pianura emiliano romagnola. Un partito deve prendere come riferimento queste grandi aree. E’ inevitabile. Non farlo non ci aiuterà né a capire il nord né a radicare il Pd in queste aree decisive del Paese».
Dove invece la Lega si espande di elezione in elezione…
«E continuerà a farlo, soprattutto se non aggiorniamo la nostra analisi. La Lega non è un un partito che intercetta un voto di protesta: questo è un argomento senza fondamento, ha ragione Maroni. La Lega è un partito con una linea politica di destra, raccoglie consensi sulla base della sua linea che è proposta e sperimentata, per altro, anche in ruoli e attività istituzionali. Naturalmente, io non condivido quella linea, e la contrasto. Ma se torniamo alla tesi che quelli alla Lega sono voti di protesta, commettiamo un errore clamoroso».
E crede che sia questo quel che sta accadendo?
«In parte sì. E sono stupito. Così come mi stupisce sentir dire che “anche gli operai votano Lega”, come fosse una scoperta. Posso farle un esempio?».
Naturalmente.
«A parte il fatto che quando un partito supera certe soglie di consenso il suo radicamento è necessariamente interclassista, vorrei ricordare il 1994, cioè la crisi del primo governo Berlusconi. Il sindacato protestò per la riforma delle pensioni proposta, ma la crisi l’aprì Bossi in Parlamento. E lo fece perché l’acuirsi del contrasto tra sindacato e governo mandò in sofferenza la base sociale ed elettorale della Lega, che già allora era fatta anche da operai. E se devo dirle, anzi, la situazione di oggi mi sembra somigli molto a quella che ricordavo».
Cioè, vede possibili problemi tra Lega e Popolo della Libertà?
«La linea della Lega ha evidenti elementi di diversità rispetto a quella di Berlusconi. In materia economica guarda alle piccole imprese, con tratti protezionistici, e dunque altro che liberismo. Nel sociale è molto attenta ai temi del welfare, e quanto alla globalizzazione… Considerati i rapporti che ha con la Lega, credo non sia un caso che Tremonti sia approdato alle teorizzazioni cui è giunto. Comunque, questo riguarda loro. Ciò premesso, il lavoro fatto da Veltroni è del tutto positivo e pienamente condivisibile. E la linea economica e sociale indicata è quella che ci può consentire con pazienza di acquisire risultati positivi anche in questa parte del Paese».
Un’ultima domanda, su tutt’altro: che le pare della batosta subita dalla Sinistra arcobaleno? Magari ne sarà contento, considerati i suoi rapporti a Bologna con Rifondazione…
«Considero l’assenza in Parlamento di quella sinistra un fatto profondamente negativo, prodotto dai loro errori politici enfatizzati da una pessima legge elettorale da cambiare. Credo che, a differenza del 1996, stavolta Rifondazione avesse scelto con convinzione la strada della partecipazione al governo. Hanno però sottovalutato le difficoltà di stare in una ampia coalizione. In un quadro così, la necessità della mediazione bisogna darla per scontata: e della mediazione non puoi cogliere sempre e solo gli aspetti negativi. Ora spero riflettano. E mi auguro che dalla riflessione emerga la voglia di riprovarci piuttosto che quella di rifugiarsi per sempre all’opposizione in nome di una scelta puramente identitaria».
Intervista di Federico Geremicca – La Stampa
Penati: Creiamo una classe dirigente legata al territorio.
Non dice «l’avevo detto » per non sembrare presuntuoso. Ma l’aveva detto davvero e in tempi non sospetti: che «il problema è il Nord», che i leghisti «non sono soltanto zoticoni», che «le nostre Regioni hanno bisogno di sentirsi più rappresentate » e perfino «che bisogna cacciare gli ambulanti e gli abusivi».
Filippo Penati, una vita nel Pci, sindaco di Sesto San Giovanni, poi segretario provinciale del Pd milanese, oggi presidente della Provincia, guarda avanti facendo notare che «oggi c’è un novità».
Che anche altri si sono accorti che la Padania esiste?
«No. La novità sta nel fatto che, come spiegano bene il sindaco Sergio Cofferati e il presidente Vasco Errani, si è esteso anche all’Emilia Romagna il tema che credevamo riguardasse i lombardi, i veneti e poco più».
Quale tema?
«La Padania non è un luogo geografico, ma un luogo politico con una dimensione territoriale in cui esiste omogeneità di problemi».
Quali problemi, allora?
«Il principale è che si sente il bisogno di un partito federale che si occupi più da vicino del Nord. Cofferati ed Errani pongono giustamente la questione: bisogna riconoscere la specificità del Nord e serve una politica che dia risposte specifiche».
Perché la Lega avanza?
«La Lega è il termometro che misura una febbre. Credo che uno dei problemi sia l’essere venute a mancare le categorie classiche: una volta c’erano i salariati e i datori di lavoro».
I padroni e gli operai?
«Esatto. Oggi non ci si riconosce in queste classi: soprattutto perché si sono riunificate le modalità di lavoro ed, essendo proliferate le piccole e medie imprese, sono venute meno le ragioni di contrapposizione tra gli uni e gli altri. L’altro aspetto riguarda la comune attenzione prestata ai fenomeni della globalizzazione, per quanto riguarda il sistema economico, e la preoccupazione per i flussi migratori che in queste zone provocano insicurezza più che altrove».
Qui si svela il leghista Penati.
«Non sono leghista, ma questo è il punto. La gente da noi si chiede se l’Europa, su cui tutti avevamo scommesso come momento di rilancio e grande opportunità, è quella che fissa il prezzo delle zucchine o che governa il flusso ad esempio dei romeni. Abbiamo allargato ad altre nazioni, va tutto bene, ma siamo esposti a processi che forse ci sono scappati di mano».
L’Unione e l’allargamento ad altre nazioni sono diventate un problema?
«Per certi versi, qui il sistema delle imprese vive l’Europa come fonte di ulteriori lacci e come soggetto che ha portato insicurezze, perché la presenza non controllata di alcuni cittadini oggi non più extracomunitari ha creato fattori di insicurezza. La politica non dà risposte, quindi prevale nel cittadino il suo appartenere a una regione, più che a una classe sociale».
Ed è per questo che la Lega prende piede?
«Quello alla Lega non è un voto di protesta. Ma è il riconoscimento che c’è una forza che si occupa di questo malessere, di questo malumore diffuso da tempo e per questo ancora più radicato».
Sto per chiederle se lei ha votato Lega o Pd.
«Non scherziamo. La Lega sbaglia nelle risposte, che sono quasi sempre demagogiche e non condivisibili. Ma è innegabile che loro non girino la testa dall’altra parte».
Il Pd, invece?
«Le cose dette da Veltroni in campagna elettorale e scritte nella proposta del Pd hanno fatto fare un balzo in avanti notevole alla sinistra. C’è una nuova attenzione, ma certo non si può fare tutto in pochi mesi. L’importante, ora, è continuare su questa strada radicandosi sul territorio: come sapeva fare il Pci e come ha fatto la Lega selezionando e formando nel giro di pochi anni una classe dirigente che ha un legame fortissimo con la sua zona e i suoi elettori».
E, poi, costruire il partito federale?
«Non nel senso di una forma organizzativa, però. Non come quando i nostri ministri ci dicevano: “Veniamo ad aprire un ufficio a Milano”. Non si chiede un decentramento del quartier generale, serve un partito che attorno alla proposta sul Nord annunciata da Veltroni costruisca una nuova classe dirigente e dia risposte alle urgenze di questi territori».
Elisabetta Soglio – Il Corriere della Sera
Fioroni: “Niente divisioni sì al partito dei campanili”
Cofferati, Chiamparino, la questione Settentrionale e il Pd del Nord?
Beppe Fioroni passa oltre, propone di cambiare dibattito: «Io vorrei il Pd degli ottomila Campanili, non un partito “scomposto”, del Nord o del Sud».
Uno che scalcia, quando occorre, il ministro uscente della Pubblica Istruzione, fedelissimo di Franco Marini, cattolico osservante. uomo di tessere nel Ppi da cui proviene. Il «radicamento nel territorio» è sempre stato un suo pallino.
E ora, onorevole Fioroni, lei invidia la Lega?
«Macché. Se vogliamo studiare il modello Lega, studiamolo bene. Buona la scelta di Veltroni di riunire per la prima volta i coordinatori del partito a Milano, ma la prossima volta li convochi a Palermo. Una premessa: il Pd è un prototipo che abbiamo allestito con coraggio e che è stato chiamato in anticipo a correre. Ora dobbiamo trasformare il prototipo nella macchina da corsa che vince».
Uscite da una pesante sconfitta, il Pd del Nord è una ricetta?
«Il prototipo Pd ha fatto la propria parte evitando un risultato anche peggiore. Non ha espresso appieno le potenzialità ma la soluzione non è il partito del Nord, piuttosto che del Centro o del Sud dal momento che le difficoltà le abbiamo avute ovunque. Di certo, ci vuole un partito nuovo, rinnovato e che rispetti le autonomie regionali.
La Lega risulta la vincitrice di queste elezioni e nelle regioni in cui è presente fa perdere punti al Pdl di Berlusconi, perché è il partito dei territori: è in mezzo alla gente con una classe di amministratori, è un partito strutturato, di fatti. I leghisti hanno incrociato il consenso dell´elettore della sinistra radicale che si affida a Cremaschi in fabbrica e al partito di Bossi nella propria realtà».
Nonostante la cerimonia con armature e spadoni a Pontida, dà risposte moderne?
«L´anacronismo non importa. Quel che ha contato sono state le rassicurazioni ma non virtuali, reali: sulle strade, la sicurezza, i bisogni territoriali e in virtù di questo radicamento sono stati perdonati gli svarioni. Così, il Pd deve essere partito nazionale innervato negli ottomila Comuni, nelle oltre cento province. Non solo il partito di Internet, ma di una rinnovata classe di amministratori e dirigenti».
Quindi per lei non c´è una questione Settentrionale? Cofferati non ha qualche ragione?
«Non ho detto che Cofferati non abbia ragioni. Ma non possiamo essere il partito delle questioni, le analisi le fanno i sociologi. La gente apprezza il partito dei fatti. Sì, c´è una questione del Nord, come ce n´è una del Sud, ogni parte del paese è una questione».
Se però gli amministratori pd nordisti hanno lanciato l´allarme, forse non bisogna ignorarli?
«Per prima cosa, bisogna non avere una reazione di paura e di incertezza rispetto al risultato del Pd. Il prototipo funziona, la strada di una forza riformatrice, di centrosinistra, che abbatte gli steccati tra laici e cattolici è quella buona. Chiamparino si chiude nell´orticello di un partito di sola sinistra. Invece, no: né nostalgia del Pci del 1976, né una “scomposizione” in nome del modernismo. Dobbiamo attrarre quegli elettori che non avranno risposte dal governo Berlusconi».
Fassino parla di dialogo con la Lega. Si potranno immaginare alleanze?
«La Lega ha già scelto le proprie alleanze»..
Dica una cosa in cui avete sbagliato. I cattolici sono stati delusi dal Pd?
«Gli errori meriterebbero un´analisi più approfondita. I cattolici ci hanno votato molto di più di quanto pensiamo, basta vedere i flussi dell´Udc e della sinistra radicale».
Giovanna Casadio – La Repubblica
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