D. è uno scienziato di 32 anni, età in cui in Italia si è ancora considerati ragazzi. Dopo la laurea, ha vinto il concorso per dottorato di ricerca nell’università statunitense in cui aveva scritto la tesi. Proseguito e completato con successo il suo ciclo di studi, ora svolge e pubblica ricerche di impatto globale. Da poco è stato nominato professore in quella stessa università, che ha voluto tenersi stretto un talento cercato fuori e coltivato al suo interno, e sta per avviare un nuovo laboratorio.
Una storia già sentita, un insostenibile doppio spreco. Spreco di denaro pubblico, perché D. ha frequentato scuole pubbliche italiane, quindi la sua istruzione è stata finanziata da tutti noi. E spreco di futuro: crescita e benessere divengono miraggi, se il nostro Paese priva parte delle sue migliori intelligenze di prospettive domestiche.
Alla fine dell’anno scorso, l’istituto I-Com presentò uno studio sul valore economico dei cervelli in fuga, calcolando i proventi generati dai brevetti attribuibili all’attività intellettuale di scienziati italiani all’estero, e stimando la perdita per il Paese in quasi 4 miliardi di euro su un arco di 20 anni. Oltre ai numeri, vi sono due aspetti «ambientali» da tenere presenti.
Il primo riguarda il contesto in cui i giovani crescono. L’inaridimento del percorso formativo, la scarsità di risorse per lo studio, l’irrigidimento dello sviluppo professionale frenano la mobilità sociale e possono essere frustranti per chi ha un atteggiamento più propositivo e innovativo. Ciò non solo alimenta la fuga di cervelli, ma scoraggia anche le iniziative imprenditoriali. Dare prospettive ai giovani che abbiano voglia di impegnarsi e lavorare seriamente (il che presuppone capacità e volontà, non scontate, di riconoscerli e selezionarli) è essenziale.
In secondo luogo, i brevetti vengono valutati, ma potrebbero davvero essere sviluppati in Italia? Di quanti benefici della ricerca l’intero sistema-Paese, e non solo l’inventore, potrebbe appropriarsi? Servono decisioni politiche di lungo periodo, volte a costruire un’infrastruttura e un indotto per le attività scientifiche o ad alto valore aggiunto, privilegiandole rispetto ad altre. Non sempre il progresso nasce da condizioni ostili, spesso all’innovazione giova un ambiente accogliente. Sette anni fa consegnai al presidente di un’importante azienda italiana, che conoscevo per motivi professionali e che aveva espresso grande stima per mio padre, una raccolta di suoi scritti. Egli ricordò quanto giovane fosse mio padre quando iniziò a scrivere, e disse che, quando si possiedono talento e una forte volontà, le opportunità per emergere si presentano sempre. Manifestai perplessità, poiché ritenevo che l’Italia del 2005, rispetto agli anni 60, non offrisse particolari opportunità per i giovani. Da allora, com’è noto, le cose sono peggiorate. Non esiste un diritto delle nuove generazioni a vivere meglio di quelle che le hanno precedute: la spinta a dare il meglio di sé non può essere ricevuta dall’esterno, ma solo nascere all’interno di ognuno di noi. Ma limitare la possibilità dei giovani di valorizzare le proprie capacità, in primo luogo attraverso lo studio, in una scuola che sia pubblica, di qualità, esigente, orientata al lavoro, motore di mobilità sociale, significa asfissiare lentamente il nostro Paese. Esempi vecchi, come quello di mio padre, e recenti, come quello di D. e tanti altri, ci ricordano che non è troppo tardi per cambiare direzione. Basterebbe capirli.
Il Corriere della Sera 28.05.12