Cambiare la legge elettorale è una necessità vitale per la nostra democrazia malata. L’Italia non può permettersi un’altra legislatura segnata dal distacco crescente tra elettori ed eletti, da premier che rivendicano un mandato diretto senza averne titolo, da coalizioni rissose che nessun premio di maggioranza riesce a cementare. Per questo la sortita berlusconiana sul presidenzialismo non annuncia nulla di buono. Il nostro sistema ha già avuto in questo ventennio una torsione presidenzialista: ma questa è parte della malattia di cui soffriamo, delle manomazioni che sono state prodotte al nostro impianto costituzionale. Dovremmo liberare il sistema dalle zavorre populiste, dai miti iper-democratici (che hanno prodotto effetti autoritari), dalla demagogia gettata a piene mani nei delicati ingranaggi istituzionali. Invece rischiamo di ritornare al punto di partenza. Di perderci in un labirinto che può uccidere la democrazia rappresentativa.
La crisi della politica è grave. Non solo in Italia. La ragione prima della crisi non sta certo nelle storture del sistema istituzionale. Il sistema vacilla innanzitutto perché la politica non si mostra capace di risolvere i gravi problemi sociali causati dalla crisi economica. La politica non riesce più a regolare la finanza, il mercato, la globalizzazione.
Non ha gli strumenti per redistribuire risorse, per ridurre le disparità sociali, per aiutare chi ha bisogno, per offrire opportunità a chi ne ha di meno. Ma se questo è il deficit comune delle democrazie occidentali – in particolare di quelle europee, che si sono imposte politiche economiche e monetarie colpevolmente restrittive – noi abbiamo un difetto aggiuntivo. Il sistema modellato dalla Seconda Repubblica non funziona. Non funzionerebbe neppure se l’Europa cambiasse politica, e se le democrazie mondiali riuscissero a mettere qualche briglia allo strapotere della finanza.
Il combinato tra la debolezza della politica di fronte alla crisi e il collasso del sistema interno (fotografato nel mostruoso Porcellum) danno la cifra del pericolo a cui andiamo incontro. Berlusconi ha sabotato più volte le intese sulle riforme. E non si è mai preoccupato di definire una modalità concreta, con plausibili contrappesi, al presidenzialismo che periodicamente invocava: piuttosto ha proceduto per strappi. Ha introdotto brutalmente elementi di presidenzialismo nel sistema, facendo prima saltare gli equilibri costituzionali e poi appellandosi al primato della nuova Costituzione «materiale». Il fallimento del suo governo lo ha ora indotto a ripiegare sulla linea del tanto peggio, tanto meglio. I giornali del Cavaliere competono con Grillo nel dire che i partiti sono tutti uguali, che il declino dell’Italia è responsabilità comune della politica, che in fondo è bene che Sansone muoia con tutti i filistei. Il rilancio del presidenzialismo, a pochi mesi dalla fine della legislatura, sembra iscritto dentro questa strategia. Peraltro, come si può pensare di cambiare radicalmente l’impianto della Costituzione con un semplice emendamento che trasferisca l’elezione del Capo dello Stato dalle Camere riunite all’intero corpo elettorale?
Il nostro problema è che non si può, non si deve tornare a votare con il Porcellum. È chiaro che molti nel Pdl vogliono far saltare la riforma perché, prevedendo la sconfitta, puntano tutto sul fallimento della prossima legislatura. Il centrosinistra, ma soprattutto il Pd, deve invece fare ogni sforzo, ogni tentativo per cambiare questa pessima legge elettorale. Deve essere pronto anche a rinunciare a qualcosa: ma il Porcellum va archiviato, altrimenti le elezioni, e soprattutto il dopo, rischiano di travolgere ogni speranza di cambiamento e di aprire la strada a pericolose avventure.
Per questo occorre rilanciare la sfida al Pdl, per quanto indigesta sia l’ultima proposta avanzata. Se il Pdl fosse disposto a sedersi al tavolo della riforma elettorale, e ad apportare alcuni limitati cambiamenti al testo costituzionale (numero dei parlamentari, stabilizzazione del governo, parziale differenziazione del ruolo delle Camere), bisogna tentare comunque di arrivare a un’intesa. Tentare fino all’ultimo, anche se i tempi si fanno sempre più stretti e le speranze obiettivamente si riducono. Chi grida soltanto all’inciucio spesso lo fa per difendere il Porcellum.
In ogni caso va detto con chiarezza che il presidenzialismo non può essere assolutamente oggetto di trattativa in questi mesi. La priorità è la legge elettorale (connessa a quei pochi interventi sulla Costituzione che ne possono favorire il successo). Berlusconi ha fatto un’apertura sul doppio turno? Bene, si scoprano le carte. E si valuti con attenzione. Il sistema francese non pare il più adatto a ricomporre l’attuale frammentazione italiana: potrebbe addirittura accentuarla. Forse è migliore un sistema che consolidi nel primo turno l’identità e la proposta delle forze maggiori (attraverso lo sbarramento) e consenta di utilizzare il secondo turno in una quota di collegi uninominali per comporre le coalizioni davanti agli elettori. Ma si vedrà entro pochi giorni se ci sarà spazio per un confronto vero.
Eventuali riforme più ampie sulla seconda parte della Costituzione non possono che essere rinviate alla prossima legislatura. Sempreché sia messa fin d’ora nelle condizioni di funzionare. L’opzione presidenziale non pare comunque convincente. Abbiamo visto quanto sia stato prezioso un presidente-garante in un momento di collasso del sistema. I poteri costituzionali del nostro Capo dello Stato non sono scarsi: se la sua investitura scaturisse da uno scontro politico-elettorale, sarebbe difficile immaginare una successiva autonomia del governo (peraltro non espresso direttamente dal popolo). Ma nessuno può ipotecare il confronto di domani, purché si svolga secondo le regole della Costituzione. Ciò che vale sempre è la regola della prudenza quando si mette mano alla Carta fondamentale: non vorremmo che si ripetesse la storia recentissima della modifica dell’articolo 81. Tutti di corsa a introdurre il «pareggio di bilancio» (perché imposto dall’Europa), salvo scoprire il giorno dopo la limitazione all’autonomia del Parlamento e ai diritti sociali.
l’Unità 27.05.12