L’ uccisione di donne non accenna a rallentare. Durante la presentazione del Rapporto annuale Istat si è evidenziata una diminuzione generale degli omicidi nell’ultimo ventennio, ma non di quelli femminili. Nel 2011 sono state 137 le vittime in Italia, dieci in più dell’anno precedente, e nei primi mesi del 2012, già più di 50 donne hanno perso la vita, uccise da un maschio. Quasi sempre da un marito, un compagno, un ex. Sono diminuiti alcuni reati, ma gli stupri sono aumentati. Stando a una ricerca del 2006, il rischio di essere oggetto di qualunque tipo di violenza cresce con il crescere della vicinanza del colpevole. Una donna su tre (tra i 16 e i 70 anni) è stata vittima di comportamenti lesivi più o meno gravi. La diffusa sopraffazione sulle donne costituisce non solo un terreno di coltura che può generare esiti letali, ma un male sociale in sé.
Si moltiplicano appelli e mobilitazioni contro questo intollerabile fenomeno. Ma perché abbiano un impatto rilevante non basta che risveglino le coscienze e attraggano la pigra attenzione dei media, devono anche informare le vittime sugli strumenti a loro disposizione, convincerle a reagire, spingere gli addetti a trovare nuovi strumenti di tutela. Inasprire ulteriormente le pene carcerarie è una scorciatoia inefficiente: i tempi di detenzione sono già stati allungati.
Nel 2009, con una maggioranza bipartisan, è passato il provvedimento contro la violenza sessuale che prevede da 6 a 12 anni di carcere. Sempre nel 2009 è stato introdotto con voto quasi unanime il reato di stalking (molestie di vario grado): il carcere va da 6 mesi a 4 anni, aumentabili fino a 6 se il colpevole è un partner o un ex, in larghissima maggioranza si tratta maschi. Le pene detentive non costituiscono un deterrente efficace e non arginano la forma estrema di violenza, l’omicidio, che prevede sanzioni ben più gravi.
Che fare? Partiamo dai casi che presentano maggiori rischi. In base alla legge anti-stalking, il giudice può imporre ai responsabili di atti persecutori l’obbligo di tenersi a distanza dalla vittima, ma ovviamente non si può contare sul fatto che proprio i soggetti più pericolosi lo facciano, né si può prospettare una sorveglianza continua e capillare delle forze dell’ordine. Nelle situazioni di maggior pericolo si potrebbero dotare le donne di strumenti di comunicazione semplice e immediata con il 113 o con lo speciale numero verde 1522 che, a sua volta, può attivare un intervento immediato. Occorre, però, che le donne stesse siano consapevoli dell’entità del rischio che corrono.
Questo vale anche per i casi, almeno inizialmente, meno gravi: l’1522 può metterle in contatto con i Centri antiviolenza specializzati nel seguire questi fenomeni. Nella quasi totalità dei casi le donne maltrattate non lo fanno. Molte evitano persino di parlarne con amiche e parenti.
Per spezzare il silenzio occorre partire dalla constatazione che parlare, a loro avviso, potrebbe avere costi troppo alti. Il primo costo, il più difficile da contenere è il rischio della perdita affettiva, la rinuncia a una relazione per quanto malata. Un secondo costo, temuto dalle vittime di aggressioni da parte di coniugi o conviventi, consiste nella perdita dello status sociale e della sicurezza economica garantiti dal partner. All’interno della coppia è ancora frequente uno squilibrio di genere di risorse e di status. Il rapporto annuale dell’Istat ha fotografato ancora una volta questo squilibrio. L’Italia è seconda solo a Malta per la presenza di famiglie in cui solo l’uomo lavora. La proprietà della casa in cui la coppia vive è più spesso del maschio. A picchiare non sono soltanto spiantati ubriaconi, ma anche individui benestanti, stimati lavoratori, professionisti apprezzati. E il divario di reddito tra maschi e femmine cresce con il crescere della posizione sociale. La legge prevede l’obbligo di versare un assegno periodico alle vittime di stalking, ma la denuncia, se si tratta di un convivente, potrebbe coincidere comunque con una rinuncia al benessere e alla considerazione sociale di cui la donna indirettamente gode. I centri anti violenza servono anche a far capire che le strategie sono molte e non necessariamente comportano una definitiva rottura. Perciò è necessario che i centri si rafforzino.
Per arginare i costi temuti che favoriscono il silenzio, bisogna evitare almeno nei casi meno gravi ricorsi troppo immediati al giudice e alle misure detentive. Quello che vale nelle relazioni conflittuali internazionali, può valere anche nelle relazioni conflittuali di genere. Funziona meglio l’escalation piuttosto che la deterrenza dell’arma estrema.
Occorre che le donne vittime di abusi sappiano che la normativa italiana prevede già la possibilità di chiedere aiuto senza pagare e far pagare subito costi troppo alti. Non infligge immediatamente ai colpevoli punizioni che le stesse vittime possono considerare troppo pesanti e con effetto boomerang.
La legge anti stalking è uno strumento flessibile. Quando le donne si rivolgono alle forze di polizia, invece di sporgere immediatamente querela, e con ciò attivare un procedimento penale, possono fare una richiesta di ammonimento. E il questore può cercare di dissuadere il responsabile attraverso questo strumento. Il questore può anche aprire un’istruttoria, convocare il colpevole e la vittima per approfondire la questione. In molti casi l’ammonimento ha dimostrato di funzionare. E, comunque, a fronte di recidiva o di comportamenti gravi, non occorre neppure la querela, scatta la denuncia di ufficio e si apre il procedimento penale.
Si potrebbe riflettere sulla possibilità di affinare ulteriormente le armi leggere di dissuasione, modulando ancora di più l’escalation: ad esempio, colpendo in misura crescente il capitale di onorabilità e di stima dei colpevoli.
Se il questore rafforzasse le misure di sorveglianza, questo servirebbe non solo a tutelare materialmente la vittima, ma anche a estendere la conoscenza dei misfatti. I vicini potrebbero interrogarsi sul perché una macchina della polizia si trova di fronte a quel portone. La stessa estensione della conoscenza potrebbe essere attuata attraverso un allargamento delle testimonianze nel corso dell’istruttoria. La possibilità di modulare il numero e il tipo di persone coinvolte offrirebbe al Questore uno strumento dissuasivo di potenza variabile ed eventualmente crescente. Ma la minaccia o l’attuazione di un danno di immagine è efficace solo a tre condizioni. La prima è che le vittime la mettano in moto: che si rivolgano al numero verde o alle forze dell’ordine, che accettino almeno questa modica sanzione per il colpevole. La seconda si collega alla prima: le donne abusate non devono vergognarsi di essere vittime. Purtroppo spesso capita. La vergogna dovrebbe essere monopolio assoluto dei colpevoli. La terza è forse la condizione chiave e si collega alla seconda: comportamenti come lo stalking e la violenza domestica dovrebbero essere considerati vergognosi persino a giudizio degli stessi autori, o almeno agli occhi della stragrande maggioranza dell’universo maschile. Ma lo sono?
La Stampa 23.05.12