Il discorso sulle riforme della Costituzione prosegue al Senato: estenuato dalle attese, condizionato dagli 8-9 mesi che appena mancano alla fine naturale della legislatura. Ma forse, sotto la spinta propulsiva del Capo dello Stato, il tempo c´è per fare due, tre cose essenziali al rifunzionamento del meccanismo istituzionale, in risposta alle domande più pressanti dell´opinione pubblica.
Vi è però la necessità che in quel discorso sia anche presente quello che è divenuto il punto focale della politica. Il punto è che la vera questione costituzionale del nostro tempo è ora il rapporto tra la democrazia statuale e l´economia finanziaria. Da problema tecnico che sembrava all´inizio della Grande Crisi, esso ha preso impetuosamente il centro della scena. Anzi, ha reso irrilevante ogni posizione politica e istituzionale che ad esso non si richiami più o meno direttamente.
Ogni giorno di più le cifre del disavanzo, dello spread, del debito si sono tradotte in parole incisive e decisive sulla vita della gente: sulla scuola, sul lavoro, sul futuro. E, dunque, cifre e parole preponderanti nel modo di essere e di reagire di ogni democrazia nazionale. Dato che è a rischio lo Stato sociale: punto d´arrivo � con lo Stato costituzionale � del ´900.
Nella zona, mai completata, dell´euro � con le sue discipline, con i suoi strumenti di aiuto e di sanzione � i problemi della Grande Crisi, malgrado le loro origini e dimensioni mondiali, si sono incanalati in un referendum sotterraneo pro o contro l´Unione europea. L´Unione dei parametri e dei vigilantes di Bruxelles.
Quando la forza dell´opinione è così forte e così diffusa è inutile fare distinguo sulle cause e sugli effetti. Una cosa è però certa: ed è che in pochissimo tempo si sono capovolti i termini di riferimento con cui guardavamo ai problemi dell´Ue. Un capovolgimento che investe tre aspetti principali.
Il primo aspetto era condensato nella formula degli “Stati come signori dei Trattati”. Una affermazione difensiva della sovranità statale, molto ricorrente, ad esempio, nelle sentenze del tribunale costituzionale tedesco. Ebbene, oggi constatiamo, nella vita concreta delle comunità politiche nazionali, che sono invece i Trattati ad essere “i signori degli Stati”. Nel senso che i vincoli dei Trattati � che hanno nei mercati, con il loro potere di sanzione, come un braccio secolare � condizionano la stessa sopravvivenza degli Stati.
Il secondo aspetto di rivoluzionamento che la Grande Crisi impone, investe la nozione di “deficit democratico”. Eravamo finora abituati a parlare di deficit democratico in riferimento ai meccanismi decisionali dell´Unione, ai rami alti dell´Unione. Quei meccanismi che, di trattato in trattato, cercavano di imitare, come in uno specchio, il formato tradizionale delle democrazie nazionali. Ebbene, ci accorgiamo oggi che il problema “deficit democratico” si è spostato in basso: dall´Unione agli Stati dentro l´Unione. In altri termini: su come le democrazie nazionali riescano a conservarsi tali di fronte alle decisioni dei nuovi modi di governance europea. Quei modi che Habermas chiama di “federalismo esecutivo”: con i governi degli Stati membri alla ricerca delle maggioranze necessarie nei loro parlamenti per ratificare gli impegni assunti – prima � a Bruxelles.
Siamo cioè in presenza di una specie di deficit democratico indotto. E � attenzione � ora non si tratta più di conflitti giuridici di attribuzione fra poteri dell´Unione e quelli degli Stati membri o tra metodo comunitario e metodo intergovernativo. Oggi il problema tocca la sostenibilità, da parte dei sistemi democratici, di procedure di aggiustamento dei conti pubblici che danneggiano irrimediabilmente le condizioni esistenziali della cittadinanza. Si pone, insomma, la domanda di Stefano Rodotà: “Qual è la soglia di disuguaglianza al di là della quale è a rischio la stessa democrazia?”.
La risposta è, per ora, quella dell´insostenibilità elettorale. Con le crisi sistemiche dei governi, con la spalmatura del rischio politico su grandi coalizioni governative tenute insieme dal solo collante dell´emergenza (da noi, la grande coalizione è parlamentare: come se si fosse formata tra i due schieramenti una sorta di reciproca conventio ad excludendum dal governo). E, quasi per naturale conseguenza, con il crescente successo di movimenti nazionalisti e antieuropei, portatori di devianze costituzionali, com´è avvenuto in Ungheria.
Vi è, dunque, un terzo aspetto: il capovolgimento dei termini con cui la questione europea era percepita nella sfera pubblica nazionale. Da una sensazione di marginalità se non di estraneità (lo Stato come “contenitore unico di democrazia”) ad un riconoscimento di centralità. La questione europea non solo entra in uno spazio politico integrato: ora ne costituisce anche l´asse di mezzo, la linea di cesura, rispetto alla quale si deve riferire, si deve posizionare ogni altra questione politica presente nel dibattito democratico all´interno delle Nazioni.
Ecco: è questo straordinario mutamento delle cose che ha svelato di colpo il corto respiro del discorso corrente sulla revisione costituzionale.
Certo: per una Costituzione che voglia evitare il ripetersi di pericoli populisti, ben noti nel recente passato, e, soprattutto, voglia evitare quelli diversi, e ben probabili, nel futuro, la linea di marcia deve essere quella del garantismo europeo. La linea cioè di accrescere capacità e velocità di decisione del sistema politico, apprestando simmetriche, non dilatorie, garanzie contro le sempre possibili devianze. Un equilibrio che per ora è del tutto assente nei tentativi in atto.
Tuttavia, qualsiasi assetto costituzionale d´avvenire deve proporsi di sfruttare anche una energia politica nuova. È quella stessa che deriva dalla persino dolorosa coscienza popolare del dilemma: Europa/non Europa. Una energia che si manifesta in una cornice che va obbligatoriamente al di là dei confini nazionali.
Non è vero che questa energia “sprigionata” abbia un inevitabile destino populista. È possibile che essa sia guidata, con procedure costituzionali e finanziarie, che cerchino fiducia più che effetti immediati, verso la invenzione di una democrazia porosa: capace di connettere democrazie nazionali e democrazia europea, in un consenso partecipato. I sommovimenti elettorali in Francia e Germania non sono semplici rifiuti ma dicono della ricerca appassionata di altre vie di rinascita europea.
Si è aperto, insomma, un problema di legittimazione del governare che porta il discorso dei costituzionalisti ad un duro esame di verità e di realismo sul terreno della Grande Crisi sociale. Sarebbe sbagliato non tenerne conto.
La Repubblica 18.05.12