Siamo solo all’inizio, ma c’è da credere che al di là delle scontate dichiarazioni circa la rilevanza strategica dell’asse franco-tedesco e del comune auspicio che la Grecia non esca dall’euro, la relazione tra Parigi e Berlino sia destinata a una profonda revisione. È una necessità che in parte prescinde dal cambio della guardia all’Eliseo. È perlomeno dall’89, dalla fine della Guerra Fredda, che il rapporto tra Francia e Germania non è stato oggetto di un ripensamento reciproco. Dire che resta essenziale affinché l’Europa unita sopravviva è un’ovvietà. Quello che è meno ovvio è capire come si possa riarticolare. La Germania sta sperimentando come una sua leadership «eccessivamente solitaria» la esponga a un insostenibile isolamento. La Francia sa bene che una parte non irrilevante del suo peso deriva dall’agire in tandem con Berlino. Ambedue sono perfettamente consapevoli di come l’Europa, piuttosto che vincolarne le sovranità, potenzia le rispettive posizioni e ne hanno a cuore il futuro.
Ma quando parlano di Europa, si fa sempre più netta la sensazione che abbiano in mente due costruzioni ben diverse. A tema non è più la sovranità nazionale, il timore francese di vederla erosa, l’ansia tedesca di un suo troppo imperioso ritorno. No, in discussione è che tipo di Europa dovrà essere quella capace di assorbire lo choc greco (oggi), qualunque siano le decisioni che i greci e gli altri europei prenderanno nei prossimi mesi. Il caso greco, nella sua drammaticità, è esemplare, quasi plastico del come abbiamo lasciato andare alla deriva la tensione sempre latente e però vitale tra logica politica e logica economica così da ritrovare su due sponde opposte le ragioni della democrazia e quelle del mercato. La paura con cui attendiamo l’esito delle prossime, ennesime, elezioni greche è attestata dal nervosismo delle Borse e dal surriscaldamento degli spread. I greci voteranno tra un mese, ma intanto i mercati hanno già votato: e la forza dei numeri ha già sconfitto la forza del numero. Il voto ponderato di chi concentra e sposta ricchezze finanziarie ha già messo in rotta il voto popolare: il suffragio universale, a inizio del XXI secolo, è tornato a essere qualcosa da temere, di cui diffidare, da procrastinare o svuotare, come accadeva all’inizio del ’900.
Evidentemente, il tentativo che il francese Hollande sta mettendo in atto è ricordare alla tedesca Merkel che, a forza di perseguire ossessivamente la stabilità finanziaria, stiamo rischiando di produrre la destabilizzazione politica e sociale, mentre è evidente che occorre procedere tenendo sotto controllo entrambe. Politiche che perseguono solo l’una o l’altra forma di stabilità non ne realizzeranno nessuna. Tutto questo era implicito in quel modello renano di capitalismo che per decenni è stato il vanto europeo, e che è stato progressivamente abbandonato. Si dirà che è successo sotto l’incalzare dei mercati. Occorre rispondere che è proprio alla politica che compete il porre i limiti e trovare i rimedi alle derive economicistiche o panpoliticiste. Sia Merkel che Hollande sanno bene che senza un accordo tra loro, nessuna soluzione è possibile e che la risposta «più Europa!» è giusta ma parziale, se non la si declina in un modello concreto. Paradossalmente, in vista del prossimo G8 di Camp David, è stato il presidente Obama ad ammonire i responsabili europei a imboccare con più coraggio la via delle manovre di stimolo alla crescita. Prima che sia troppo tardi e che la recessione europea non vanifichi gli onerosi sforzi messi in atto dalla sua amministrazione per sostenere sviluppo e occupazione oltre Atlantico. È un invito neppure troppo implicito a una maggiore unità europea, quello che viene dagli Usa. Esattamente come fece Eisenhower al sorgere del processo europeo, anche oggi l’America di Obama preme perché l’Europa sia più coesa. Negli Anni 50 la minaccia era quella del comunismo e dell’Urss. Oggi essa è rappresentata dalla speculazione e dalla recessione. Ma la risposta possibile è sempre una sola: più unità. A condizione di sapere su che cosa chiamare a raccolta i popoli d’Europa e avere il coraggio di farlo, prima che i fantasmi del lato oscuro del ’900 tornino a farsi troppo inquietanti.
La Stampa 17.05.12