Il sindaco: qui non ci si rassegna, stiamo reagendo alla crisi. Quanto morde la crisi in una città sospesa fra un passato iper-industriale e un futuro post-industriale come Torino? Quanto sono reali i rischi di una ripresa della violenza? E come stanno rispondendo la politica, i partiti? Piero Fassino governa il capoluogo piemontese da un anno, dalla trionfale vittoria del 2011.
Com’è stato l’annus horribilis visto da Torino, sindaco Fassino?
La crisi è profonda anche qui, non c’è dubbio: le imprese in affanno, la disoccupazione molto alta. La vita delle famiglie è più precaria, perché è più precario il lavoro e il futuro dei figli. Però ho potuto constatare quante energie si possono mettere in movimento per contrastare la crisi.
Da qui, da Roma, ci si immagina una città brumosa e intristita…
Torino non è una città piegata dalla crisi. Anzi, ha una capacità reattiva straordinaria. Girando in lungo e in largo Torino non ho trovato una persona che mi dicesse: aspettiamo tempi migliori. Al contrario, c’è voglia di dare una risposta positiva. Questa è una città molto dinamica, che non ha smesso di investire: abbiamo completato la prima linea della metropolitana, abbiamo concluso la progettazione della seconda, per fare un esempio. C’è uno sforzo per trasformare le aree dismesse in opportunità nuove riqualificando il tessuto cittadino. E potrei continuare.
Continui pure.
Investiamo molto nella cultura, non c’è settimana in cui non si realizzi un evento culturale. C’è stato la settimana scorsa il Festival internazionale del jazz, poi il Salone del libro che ha avuto un enorme successo, ci saranno le iniziative sulla legalità nel ventesimo anniversario dell’assassinio di Falcone… E questo perché penso che la cultura sia un grande motore dello sviluppo, la città che vede un ritorno positivo in termini di lavoro, turismo, opportunità, creatività. Quindi Torino è un esempio che dimostra che la crisi non richiede un atteggiamento di rassegnazione o di attesa ma la messa in campo di azioni positive.
E gli operai torinesi nell’era Marchionne come stanno?
Bisogna vedere le cose reali. Alla Bertone l’investimento concordato si sta realizzando, a Mirafiori si stanno attrezzando le linee per le nuove produzioni dal 2013. Bisogna avere chiaro che con la fusione Fiat-Chrysler è nato un gruppo nuovo, e quando nasce un gruppo nuovo le aziende non restano come prima, è normale che sia così. Non si deve avere paura di tutto questo ma creare le condizioni perché la Fiat rimanga qui, perché sia conveniente che resti. È molto più importante questo che non interrogarsi su quando va via e se va via… Quest’ultimo modo di ragionare è frustrante.
Torino però è sempre più nervosa, per non dire di peggio. La violenza, le contestazioni, il movimento No-Tav che resta un problema aperto.
Ma anche sulla Tav io vedo un’evoluzione positiva. È stata importante la determinazione con cui il governo Monti ha riaffermato il valore strategico dell’opera. Questo ha consentito di superare una fase in cui si diceva che, sì, la Tav era importante ma lo si diceva sostanzialmente dentro un dibattito un po’ rituale. Con Monti è arrivata la chiarezza: dobbiamo realizzare la Tav, peraltro con un progetto nuovo che è stato approvato dopo una lunghissima discussione, meno invasivo, gestito in modo compatibile con l’ambiente.
Ma secondo lei il movimento può essere contenitore di violenza e forse peggio?
La dimensione del movimento mi pare si stia restringendo a gruppi che fanno una battaglia ideologica, non di merito. Bisogna continuare a parlare con tutti, certo. Ci sono frange che non disdegnano forme di intimidazione e di violenza, che vanno assolutamente isolate perché minano la solidità della convivenza civile.
Però, Fassino, lei ricorda benissimo quello che accadde a Torino negli anni Settanta, quel clima, il terrorismo: cosa le viene in mente in questi giorni?
Certo, ci penso sempre a quel periodo, a quei giorni di 35 anni fa in cui i terroristi assassinarono Carlo Casalegno, l’avvocato Croce. Nei giorni scorsi a Genova il terrorismo si è rifatto vivo con le stesse modalità, e sembra tornare un fenomeno che pensavamo archiviato. È chiaro che per loro uno spazio non c’è: e però c’è chi spara. Vuol dire che non si deve abbassare l’azione di contrasto dello stato.
E in più la disperazione, questo susseguirsi di suicidi…
Mi sono chiesto perché tutto questo. Non è la prima crisi che vive l’Italia. La risposta è che la politica, i corpi intermedi, i sindacati, prima erano più forti: chi perdeva il lavoro sapeva che qualcuno lo avrebbe aiutato. Non ci si sentiva soli. Oggi si è più deboli, manca quella solidarietà e chi è disperato è preda di ogni pensiero… Ecco, bisogna fare in modo che nessuno si senta solo, preda della disperazione.
I partiti in tutto questo sono al punto più basso.
Non mi piace questa espressione, sa di antipolitica… È vero che soprattutto dopo il voto del 6 maggio, come avevo previsto, il Pdl si è dissolto, perché senza il collante-Berlusconi ha smarrito la sua ragion d’essere. Berlusconi può fare delle dichiarazioni ma ormai è fuori. La Lega è in crisi, il Terzo polo in difficoltà: l’unica certezza, pur con tutte le critiche, è il Pd. Che fa bene a sostenere Monti nel suo sforzo di far fronte alla crisi.
da Europa Quotidiano 16.05.12