«Non sta succedendo a me». Luisa, 38 anni, toscana, dice di essere andata avanti per mesi con quel pensiero fisso. Mesi durante i quali il fidanzato, da cui attendeva un figlio, alternava momenti di tenerezza a scatti di ira, carezze e botte.
Chi lavora con le donne maltrattate spiega che dalla fase «non sta succedendo a me» passano quasi tutte.
Quasi tutte le donne vittime di quelle violenze che nascono — e si ripetono — nella coppia.Sono 59 le donne uccise in Italia dal partner o dall’ex partner nel 2012: nei primi quattro mesi del 2007, cinque anni fa, erano state «solo» 29. Questi numeri raccontano un’emergenza nazionale. Anche perché gli omicidi, spesso, sono solo l’ultimo atto di anni di abusi, vessazioni, maltrattamenti. Storie quotidiane, ci insegna la cronaca. Storie che possono capitare a chiunque.
«La violenza dei numeri, le responsabilità di tutti» è la lettera aperta che verrà consegnata oggi al Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano dalle «Donne in rete contro la violenza», un’associazione che raggruppa 60 centri dei 130 esistenti nel Paese. Un doppio appello: affinché la lotta alla violenza tra le pareti domestiche diventi una priorità per il governo e affinché non vengano tagliati i fondi ai centri che quelle donne soccorrono. E proteggono.
Vergogna, sensi di colpa, un «silenzio assordante» — come scrive la psicologa Patrizia Romito — circondano questi reati: secondo l’Istat solo il 7% viene denunciato. Quando i lividi non si possono nascondere, è «la donna che sbatteva nelle porte», come racconta lo scrittore inglese Roddy Doyle nel testo portato in scena da Marina Massironi.
«Mi picchiava e io lo scambiavo per un gesto d’affetto: credevo che lo facesse perché mi amava. Pensavo di meritarlo», racconta Sara, 50 anni, romana, che dopo dieci anni di sevizie e referti in ospedale si è ritirata all’ultimo dal processo per maltrattamenti contro il marito.
Un passato lontano, un’eredità difficile che si pensava alle spalle? O in via di naturale superamento collettivo? E’ vero il contrario. Non è un caso se un omicidio su due avviene nelle tre maggiori regioni del Nord – Piemonte, Lombardia e Veneto – dove il lavoro femminile è più diffuso e più forte è l’aspirazione delle donne all’autonomia. Non è un caso se il momento più a rischio si rivela quello della separazione o della chiusura del rapporto: «L’odio tira fuori il suo muso di assassino quando, per una ragione qualsiasi, lei non sta più dentro il quadro in cui lui l’ha messa e pretende che rimanga: il quadro disegnato da un misto di oscure aspettative e di ovvie comodità», sintetizza la filosofa Luisa Muraro.
La psichiatra francese Marie France Hirigoyen, nel suo libro Molestie morali, dimostra che c’è sempre un momento preciso in cui tutto parte: un evento, anche solo una frase che punta ad abbattere consapevolezza e desideri. Sono le spie di un’ossessione malata, destinata a crescere. Se si avessero le chiavi per decodificare i segnali, imboccare il tunnel che porta a diventare vittime di violenza sarebbe meno semplice. Capire significa salvarsi. Ed è importante che capiscano l’entità del rischio le persone che per prime incontrano le donne: medici di base, vigili, poliziotti. Formazione, protezione, sostegno legale, psicologico e materiale: i centri antiviolenza oggi sono i luoghi dove trovare tutto questo.
I centri, però, sono a rischio: dei 60 che fanno parte della rete Dire (14 mila donne ogni anno chiedono il loro aiuto), 5 sono già chiusi e 20 soffrono per una costante diminuzione di fondi. Anche le altre realtà che operano sul territorio affrontano le stesse difficoltà. E non esiste una legge nazionale che garantisca la continuità e l’omogeneità degli interventi.
Esiste — per ogni problema che colpisce un gruppo sociale, piccolo o grande che sia — una «fase A» in cui solo chi è coinvolto direttamente, chi ne sente il peso in prima persona, avverte il dovere di parlarne e cercare soluzioni. Ed esiste una «fase B» in cui il dibattito si approfondisce, coinvolgendo parti più estese della comunità. Il tema della violenza sulle donne nel nostro Paese sembra ancora relegato in quella prima fase, la «pre-maturità». Una faccenda di donne per le donne. Oggi la chiamata alla responsabilità da parte degli uomini è sostenuta da poche voci. Ma è tempo che gli alibi e gli steccati cadano, che vengano svuotati gli stereotipi che determinano poi certi comportamenti maschili, perché quello che Lea Melandri chiama «il fattore molesto della civiltà» — quel groviglio fra amore e violenza che inchioda le donne nel ruolo delle perdenti — venga sezionato e dipanato, filo dopo filo. C’è una cultura da cambiare. Intanto, proteggiamo quel poco che abbiamo: i centri antiviolenza.
Dei centri, delle donne, degli uomini, parleremo in un’inchiesta che cercherà di raccontare le storie e le contraddizioni degli equilibri di potere fra i sessi, aprendo uno spazio di riflessione. Alla ricerca di soluzioni possibili.
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