Al di là della polemica sull’uso del termine che indica l’uccisione delle «femmine», madri, figlie, mogli e fidanzate vengono ammazzate perché hanno detto «no». Le agghiaccianti cronace degli ultimi mesi e degli ultimi anni riguardo all’uccisione di donne di qualsiasi età, provenienza, stato sociale ecc…. non lascia spazio a dubbi: più di 56 donne uccise in Italia dall’inizio del 2012 ad oggi, 137 uccise nel 2011 e 127 nel 2010 (per limitarci agli ultimi due anni e mezzo) mettono tutti noi davanti a un dato di fatto, ossia che il femminicidio rappresenta in Italia un’emergenza sociale che non può (e non deve) più essere ignorata. A questo proposito Se non ora quando, Loredana Lipperini e Lorella Zanardo il 27 aprile scorso hanno lanciato un appello dal titolo «Mai più complici» che in pochissimi giorni ha raccolto sul web una mole di firme che, per quantità (finora sono oltre 38mila) e qualità, ha innescato ci auguriamo un profondo cambiamento culturale. L’appello è stato firmato da rappresentanti del mondo politico, della cultura, dello spettacolo ecc. (da Rita Levi Montalcini a Suor Rita Giarretta, da Giuliano Amato a Ernesto Galli della Loggia, da Roberto Saviano a Luca Sofri, dalla FIGC a Josefa Idem, da Gianna Nannini al giovane rapper Mirko Kiave), ma soprattutto da donne e uomini mossi dall’intento di dire «basta» alla violenza contro le donne e a qualsiasi sistema culturale che preveda che le donne siano oggetti a disposizione degli uomini, senza alcuna possibilità di decidere liberamente della propria vita. Si è aperta insomma una discussione importante, che ha coinvolto figure autorevoli e la lingua è stata tirata in ballo in vario modo, innanzi tutto nell’uso del termine femminicidio.
Ad alcuni questo termine non piace: Isabella Bossi Fedrigotti, ad esempio, sul Corriere della sera del 30 aprile 2012 dichiara espressamente di non gradire il termine femminicidio in quanto evoca una «vaga intenzione di svilimento se non di disprezzo». La ragione di ciò è probabilmente legata al fatto che femminicidio deriva direttamente da femmina, vocabolo a sua volta derivato dal latino femina a indicare l’«essere di sesso femminile» (in opposizione a quello di sesso maschile) per riferirsi sia agli esseri umani che agli animali, cosa che ha fatto sì che già in latino a femina fosse associata una connotazione negativa.
Nella lingua italiana però, nonostante la connotazione negativa che si può associare alla parola femmina, il neologismo femminicidio a seguito, purtroppo, di questa tragica escalation di omicidi rivolti contro le donne sta prendendo sempre più piede al punto che, se lo si digita su Google (rilevazione del 12 maggio 2012), viene fuori un numero di occorrenze pari a circa 335.000. Questo accade perché come diceva il poeta latino Orazio si volet usus, ossia è l’uso a regolare le nuove acquisizioni e il venir meno di alcuni vocaboli.
Le parole terminanti con l’elemento -cidio non lasciano spazio ad ambiguità: vogliono dire «uccisione», in particolare «uccisione di una persona», così che si va dal vocabolo più generico omicidio («uccisione di una o più persone») ai più specifici genocidio, parricidio, fratricidio, infanticidio ecc. Per quanto riguarda le donne, in particolare, abbiamo matricidio «uccisione della propria madre», sororicidio «uccisione della propria sorella» e uxoricidio «uccisione della propria moglie», che in uso estensivo vuol dire anche «uccisione del coniuge», manca però un vocabolo specifico per «uccisione del proprio marito» (sarà un caso?).
La cronaca ci mostra che non vengono uccise solo madri, sorelle o mogli, ma anche figlie, fidanzate o ex fidanzate, conviventi o ex conviventi, ecc. e poi, fuori dall’ambito parentale, il ventaglio si allarga ancora. Spesso la colpa di queste donne è stata quella di aver trasgredito al ruolo imposto loro dalla cultura di appartenenza, in sostanza di essersi prese la libertà di decidere che cosa fare della propria vita, di aver detto qualche deciso «no» al proprio padre, marito, amante ecc… e per questo sono state punite con la morte. Ciò che accomuna tutte queste donne è che vengono uccise come è riportato sotto la voce femminicidio in Wikipedia in quanto appartenenti al genere femminile. Si tratta di delitti di genere dunque, con una loro specificità.
Negli ultimi anni si è iniziato a parlare di femminicidio (in spagnolo femicidio) negli appelli internazionali lanciati dalle madri delle ragazze uccise a Ciudad Juárez (città al confine tra Messico e Stati Uniti), dove dal 1992 più di 4.500 giovani donne sono scomparse e più di 650 sono state stuprate, torturate e poi uccise ed abbandonate. In Italia il termine femminicidio ha iniziato a circolare in riferimento alle cronache di Ciudad Juárez e analogamente, in lingue a noi vicine, si sono diffusi termini simili (in inglese femicide, in francese fémicide, in tedesco feminizid) ad indicare come si è detto un delitto con una sua specificità di genere.
Il problema non è tanto nella scelta del termine da usare non sta a nessuno di noi, presi singolarmente, decidere la fortuna di un termine piuttosto che di un altro ma nell’acquisire innanzi tutto la consapevolezza della specificità di genere di questi efferati delitti. Per quanto riguarda la lingua, è e sarà soprattutto l’uso di cui parlava Orazio a sancire o meno il triste ingresso del termine femminicidio nell’italiano, a condizione che si diffonda nella coscienza di tutti i cittadini e le cittadine italiane la consapevolezza che non siamo di fronte a omicidi generici, ma a omicidi contro le donne «in quanto donne», dunque a omicidi di genere.
l’Unità 13.05.12
3 Commenti