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"Il rischio di sottovalutare un allarme", di Michele Brambilla

C’ è una certa sottovalutazione dell’attentato all’amministratore delegato dell’Ansaldo Nucleare Roberto Adinolfi. La notizia è spesso relegata in seconda o terza fila. Sbaglieremo, ma ci pare non sia stata colta la gravità dell’accaduto. Forse un primo motivo di questa, chiamiamola così, scarsa attenzione, sta nel fatto che l’attentato non ha avuto gravi conseguenze. Adinolfi è stato ferito solo di striscio. E quindi non è scattata una reazione emotiva popolare. Ma come non pensare al significato del gesto? La «gambizzazione» in Italia ha una tragica storia in un contesto preciso. Parlavamo ieri con Antonio Iosa, un militante della Dc milanese che il primo aprile del 1980 fu appunto «gambizzato» dalla colonna Walter Alasia delle Brigate rosse come rappresaglia per i quattro brigatisti uccisi proprio a Genova in via Fracchia. Iosa fu colpito a entrambe le gambe e ha dovuto subire 34 interventi chirurgici (l’ultimo pochi giorni fa) per le conseguenze dirette o indirette di quel ferimento. Ma al di là della menomazione fisica, Iosa ci spiegava ieri che la «gambizzazione» non è affatto, come molti pensano, un «attentato minore», perché la vittima – anche quella colpita in modo lieve – subisce un trauma psicologico che lo accompagna per tutta la vita; e perché i terroristi le attribuiscono un alto significato simbolico, quello di «colpirne uno per educarne cento». E dunque per costringere tutti ad avere paura.

L’agguato di Genova è poi trascurato anche per un secondo motivo: non si crede fino in fondo che si possa trattare di terrorismo. È vero che una certezza sulla matrice non c’è ancora, e può anche essere che il terrorismo non c’entri. Ma colpisce la sicurezza con la quale da molte parti si ritiene «impossibile» o «molto improbabile» che il terrorismo possa tornare. Ma perché?

Si dice: se sono terroristi, per quale motivo non rivendicano? E più in generale si aggiunge: oggi non ci sono le ideologie di quel vecchio mondo diviso in due blocchi. Sono argomentazioni alle quali gli inquirenti – guarda caso i nuclei antiterrorismo dei carabinieri e della polizia – reagiscono con un sorriso amaro. In questi giorni, a Genova, chi conduce le indagini ha giustamente invitato noi giornalisti a «non leggere gli avvenimenti di oggi con le categorie di quarant’anni fa». Perché anche i terroristi cambiano: nei metodi, nelle strategie e pure nelle motivazioni.

Ad esempio: la rivendicazione. Oggi spesso non la si fa di proposito, per non lasciare tracce (il modo di scrivere, il mezzo usato) che possano mettere chi indaga sulla pista giusta; e non la si fa anche perché, proprio per la fine delle grandi ideologie, i gruppi rigidi tipo Brigate rosse non ci sono più. Ci sono invece tante individualità il cui unico collante è l’odio verso qualunque cosa abbia l’aspetto di un «potere». Dicono, gli inquirenti, che oggi alcuni vecchi brigatisti hanno passato le armi a elementi di questa magmatica galassia «arrabbiata» esattamente come quarant’anni fa alcuni vecchi partigiani le passarono a loro.

È un errore – ci hanno detto ancora gli uomini dell’antiterrorismo a Genova – pensare che la lotta armata non si possa ripetere perché le condizioni sono cambiate. Più saggio pensare che corriamo il rischio di trovarci di fronte a un terrorismo diverso nelle sigle e nelle modalità, ma pur sempre un terrorismo. Oggi al Quirinale sarà celebrato il Giorno della memoria dedicato alle vittime degli anni di piombo. È la quinta volta che viene celebrato. La prima, però, in cui ci si troverà a parlare, oltre che degli attentati di allora, di uno dell’altro ieri.

La Stampa 09.05.12