attualità, politica italiana

L'argine-Pd contro l'esasperazione", di Federico Geremicca

Un cumulo di macerie politiche. E in mezzo ai rottami di partiti che non ci sono più (il Pdl), di movimenti messi in ginocchio dai loro stessi errori (la Lega) e di esperimenti rivelatisi nelle urne espedienti mediatici o poco più (il Terzo polo) solo il Pd sembra reggere l’urto dell’esasperazione popolare. Il Pd si conferma – e adesso di gran lunga – il primo partito del Paese. Non che il voto non abbia riservato amarezze anche ai democratici di Pier Luigi Bersani, com’era prevedibile: ma a fronte della polmonite che ha colpito gli altri, quel che turba il Pd può esser per ora considerato un semplice seppur fastidioso raffreddore. E nulla più.

Le vicende di Palermo e Genova, certo, non sono esaltanti. Nel capoluogo siciliano il candidato Pd vincitore delle primarie va sì al ballottaggio, ma è più che doppiato dall’inossidabile Leoluca Orlando: comunque la si pensi, un leader vero, passato indenne attraverso cambi Repubblica (sindaco nella Prima e salvo terremoti anche nella Seconda) e cambi di partito; e a Genova, ferita ancora sanguinante, i democratici devono assistere al trionfo di Marco Doria, l’uomo che ha sconfitto alle primarie le due candidate del Pd. Qualche altra delusione, certo, è arrivata qua e là: ma nulla di paragonabile alla vera e propria messa in liquidazione che ha ridotto il Pdl a forza minore e la Lega – salvo Verona – ad un esercito in rotta anche al Nord e nelle sue troppo enfatizzate valli.

Ci si potrà interrogare a lungo intorno al risultato ottenuto dal partito di Bersani: si potrà, cioè, andare a cercare il pelo nell’uovo oppure dettagliare complicate spiegazioni circa la sua capacità di resistenza di fronte alla slavina che ha investito l’intero sistema politico. Ma forse varrebbe la pena di accontentarsi – per il momento – di analisi semplici, a cominciare da quella che riguarda – in fondo – la natura stessa del Pd: l’unico partito realmente strutturato lungo tutta la penisola e che – erede di due forze storiche e diversamente ideologiche (la Dc e il Pci) – gode di un residuo «voto di appartenenza» che ne permette la tenuta anche in momenti difficili come quello in questione.

Solo stamane, facendosi largo nella miriade di liste civiche e di formazioni di questo o quel sindaco, sarà probabilmente possibile avere percentuali più attendibili e capaci di indicare con precisione lo stato di salute del Pd. Ma due cose appaiono chiare fin da ora: che saranno moltissime le amministrazioni (anche importanti) che passeranno dal centrodestra al centrosinistra e che il voto – per la sua carica dirompente – consegna ai democratici certo buone soddisfazioni, ma anche un problema di non poco conto: e cioè il rapporto da tenere (da continuare a tenere) con il governo di Mario Monti.

Ieri, a scrutinio ancora in corso, Pier Luigi Bersani ha confermato sostegno e lealtà all’esecutivo tecnico di SuperMario, chiedendo solo che il Pd venga ascoltato un po’ di più e le sue proposte valutate con meno sufficienza. Ma non è dal rapporto diretto col premier e i suoi ministri che, presumibilmente, arriveranno insidie e difficoltà: il problema (l’eventuale problema) rischia piuttosto di esser determinato dalla possibile reazione di Berlusconi e di quel che resta del Pdl all’indomani di un voto che è assai più di un ultimatum o di un avvertimento.

Quel che lo stato maggiore del Pd può temere è una netta e brusca presa di distanze del Popolo della libertà dal governo Monti. Non una reazione, naturalmente, che arrivi fino al punto di rovesciare il tavolo e aprire una crisi, ma un cambio di passo, di atteggiamento che trasformi la sua fiducia e il suo sostegno in qualcosa di simile (se non di peggio) a un appoggio esterno. Questo consegnerebbe al Pd (e ad un Terzo polo deluso e ferito) la quasi esclusiva responsabilità di tener in vita il governo: con tutto quel che ne potrebbe seguire in termini di popolarità, consenso e tenuta della sua base elettorale.

Lo si vedrà, e non occorrerà molto. Per ora, il Pd può annotare come la sua alleanza con partner di sinistra (Vendola e Di Pietro) tenga nient’affatto male; come il Terzo polo si ridimensioni, trasformandosi quasi in un alleato «aggiuntivo»; e come Beppe Grillo e il suo movimento stiano prepotentemente uscendo dalla rete per trasferirsi massicciamente nelle urne. Successi, problemi e insidie, insomma. Con i quali è assai più facile fare i conti, però, dopo un risultato che ha visto l’avversario degli ultimi 20 anni finire al tappeto e perdere il match per ko. Non una cosa da poco, onestamente.

La Stampa 08.05.12

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“Un no ai partiti non alla politica”, di Massimo Gramellini

Si può buttarla sul ridere e dire che Grillo non è una sorpresa: in fondo sono vent’anni che gli italiani votano un comico. Oppure strillare contro la vittoria dell’antipolitica, come fanno i notabili del Palazzo e i commentatori che ne respirano la stessa aria viziata. Ma conosco parecchi nuovi elettori di Grillo e nessuno di loro disprezza la politica. Disprezzano i partiti. E credono, a torto o a ragione, in una democrazia che possa farne a meno, saltando la mediazione fra amministrati e amministratori.

La storia ci dirà se si tratta di un gigantesco abbaglio o se dalla rivolta antipartitica nasceranno nuove forme di delega, nuovi sistemi per aggregare il consenso.

Ma intanto c’è questo urlo di dolore che attraversa l’Italia, alimentato dalle scelte suicide e arroganti compiute da un’intera classe dirigente.

Non si può certo dire che non fosse stata avvertita. I cittadini stremati dalla crisi hanno chiesto per mesi alla partitocrazia di autoriformarsi. Si sarebbero accontentati di qualche gesto emblematico. Un taglio al finanziamento pubblico, la riduzione dei parlamentari, l’abolizione delle Province. Soprattutto la limitazione dei mandati, unico serio antidoto alla nascita di una Casta inamovibile e lontana dalla realtà. Nel dopoguerra il grillismo meridionale dell’Uomo Qualunque venne dissolto dalla Dc di De Gasperi nel più semplice e intelligente dei modi: assorbendone alcune istanze. Purtroppo di De Gasperi in giro se ne vedono pochi. La limitazione dei mandati parlamentari è da anni il cavallo di battaglia dei grillini. Se il Pdl di Alfano l’avesse fatta propria, forse oggi esisterebbe ancora. Ma un partito che ai suoi vertici schiera reperti del Giurassico come Gasparri e Cicchitto poteva seriamente pensare di esistere ancora? Il Pd ha retto meglio, perché il suo elettorato ex comunista ha un senso forte delle istituzioni e dei corpi intermedi – partiti, sindacati – che le incarnano. Ma se il burocrate Bersani, come ha fatto ancora ieri, continuerà a considerare il grillismo un’allergia passeggera, lo tsunami dell’indignazione popolare sommergerà presto anche lui.

La riprova che il voto grillino è meno umorale di quanto si creda? Grillo non sfonda dove la politica tradizionale riesce a mostrare una faccia efficiente: a Verona con il giovane Tosi e a Palermo con il vecchio Orlando (percepito come un buon amministratore, magari non in assoluto, ma rispetto agli ultimi sindaci disastrosi). La migliore smentita alla tesi qualunquista di chi considera i grillini dei qualunquisti viene dai loro stessi «quadri». Che assomigliano assai poco a Grillo. Il primo sindaco del movimento, eletto in un paese del Vicentino, ha trentadue anni ed è un ingegnere informatico dell’Enel, non un arruffapopoli. E i candidati sindaci di Parma e Genova non provengono dai centri sociali, ma dal mondo dell’impresa e del volontariato. Più che antipolitici, postpolitici: non hanno ideologie, ma idee e in qualche caso persino ideali. Puntano sulla trasparenza amministrativa, sul web, sull’ambiente: i temi del futuro. A volte sembrano ingenui, a volte demagogici. Ma sono vivi.

Naturalmente i partiti possono infischiarsene e bollare la pratica Grillo come rivolta del popolo bue contro l’euro e le tasse. È una interpretazione di comodo che consentirà loro di rimanere immobili fino all’estinzione. Se invece decidessero di sopravvivere, dovrebbero riunirsi da domani in seduta plenaria per approvare entro l’estate una riforma seria della legge elettorale, del finanziamento pubblico e della democrazia interna, così da lasciar passare un po’ d’aria. Ma per dirla con Flaiano: poiché si trattava di una buona idea, nessuno la prese in considerazione.

La Stampa 08.05.12

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