Circolano tante prediche assurde rivolte alla politica affinché interiorizzi la regola del silenzio e lasci quindi ai bravi tecnici l’onere della decisione. Solo con l’astinenza dallo spazio pubblico, si dice, i partiti potranno forse ripresentarsi un giorno, ma con corpi assai leggeri (con leggi sulla loro vita interna, tagli dei costi, rinunce simboliche).
Questa grande illusione, di vedere nei partiti dei sorvegliati speciali che, solo dopo aver accettato una completa penitenza potranno d’incanto ricomparire e riacquisire, per grazia ricevuta, un loro ruolo accettabile, è semplicemente l’anticamera della crisi della democrazia.
Davvero i partiti che scelgono l’afonia, nella paurosa crisi che muta gli orizzonti di vita delle persone, potranno ripresentarsi tra un anno a chiedere il conto? I partiti hanno mostrato la loro responsabilità favorendo un arduo governo di tregua, ora devono controllarne l’agenda, impedire deragliamenti (come quello poi schivato sull’articolo 18). Altro che ritirarsi in clausura per poi incassare un plusvalore politico a Paese ormai risanato. Se passa l’idea per cui i tecnici salvano il Paese e i politici invece cospargono macerie solo aprendo la bocca, allora non c’è altra via che istituzionalizzare una dittatura commissaria. Il fatto è che ad accentuare la crisi, e non a risolverla, oggi è proprio la cattiva credenza per cui la tecnica (del rigore assoluto) va messa al riparo della politica (della crescita, della lotta al disagio sociale).
La crisi non è ancora giunta al suo apice. Dopo l’euforia per una riduzione dello spread, che faceva sorgere il mito del tecnico come salvagente, subito collocato al vertice delle preferenze registrate dai sondaggisti compiacenti, cala mestamente l’inquietudine e l’angoscia sulle sorti reali del Paese. È bastato che il vento della crisi tornasse a soffiare per far saltare tutto il velo delle ipocrisie, delle finzioni, dei sogni scambiati per realtà. Per questo, se i partiti si imponessero davvero la consegna del silenzio, sarebbe una catastrofe.
La crisi è anzitutto sociale e rinvia alla perdita di valore del lavoro, alla eclisse della produttività di imprese decotte per mancanza di investimenti tecnologici, allo sfascio delle politiche pubbliche per lo sviluppo e per la lotta contro le diseguaglianze estreme. I governi hanno finora fatto ricorso alla più classica delle politiche dei due tempi. Prima viene l’emergenza che, in nome del risanamento immediato dei conti, giustifica tagli, misure devastanti che riconducono il tenore di vita delle persone indietro di almeno trent’anni. Poi dovrebbe seguire una attenzione alla crescita. Ma con il prelievo fiscale salito in poche settimane di ben tre punti, con addizionali regionali e comunali che da due mesi decurtano circa il 10 per cento dello stipendio, con bollette alle stelle, con rincari del costo della vita che si verificano senza alcun contrasto, quale crescita potrà mai realizzarsi?
La divaricazione temporale tra rigore e crescita non ha mai funzionato. Il rigore poi è una parola ingannevole in un Paese nel cui spazio convivono due società ben differenziate: quella del lavoro, che paga tutto per tutti, e quella di una fetta ampia di benestanti che fugge dal fisco e non è neppure sfiorata dai sacrifici. Il rigore è nient’altro che la richiesta indecente al lavoro di accollarsi per intero i costi durissimi necessari per salvare il Paese. Per questo la crisi, da economica e sociale, sta diventando politica ossia crisi di legittimazione. E in ciò si nascondono le insidie peggiori. L’antipolitica, in tale congiuntura, non è solo una blasfema manifestazione che colpisce la sacralità della bella politica. È anche uno spettro che si aggira con un fare distruttivo.
Quando il tecnico, portato al potere in nome della competenza, non doma la crisi perché lo impedisce proprio la sua diagnosi rigorista, il richiamo alla complessità dei problemi non regge più e nella società si diffondono spirali incontrollabili di sfiducia per cui chiunque, anche il comico, il sindaco, il novello imprenditore può candidarsi a raccoglitore del disagio. Dopo il fallimento del tecnico, si prenota sempre il ciarlatano. Sulla base di quale presupposto un soggetto impoverito e sfiduciato dovrebbe comportarsi come un elettore razionale? La ragione in politica non è mai il punto di partenza scontato, è una difficile conquista che suppone azioni di forza reale.
Quando a una società umiliata da tagli, blocchi di stipendio, inflazione, arriveranno anche il salasso dell’Imu, l’aumento dell’Iva, molti paletti salteranno. E allora bisognerà fare attenzione ai sondaggi, non a quelli odierni, che non dicono nulla della prospettiva, perché la crisi solo ora comincia a mostrare il suo demoniaco volto. La pretesa di far rinascere il prestigio dei partiti con il silenzio dinanzi alla povertà sociale e con l’enfasi sulla regolazione della vita interna è del tutto vana. Prima che sia troppo tardi, la politica, se non vuole soccombere, deve riprendere in mano gli eventi e impedire che tagli, austerità, sacrifici, rigore diventino l’unica agenda pubblica. C’è bisogno che la voce del partito arrivi con forza nella società disperata che soffre, altrimenti è il crepuscolo, altro che rigenerazione di chi deve solo obbedir tacendo.
l’Unità 04.05.12