attualità, memoria

"Trent'anni fa l'omicidio di Pio La Torre un agguato che fermò il cambiamento", di Roberto Leone

Quando il direttore de L’Ora, Nicola Cattedra, si affaccia sulla porta del salone della Cronaca, la redazione ribolle ormai da dieci minuti. Sono le 9,40 del 30 aprile 1982 e da un quarto d’ora stiamo impazzendo per sapere qualcosa di più preciso su un delitto appena successo. Dieci minuti prima, dalla radio sintonizzata su polizia e carabinieri, avevamo colto qualche frase smozzicata: “morto… piazza Generale Turba… no, due… forse”. Poche parole, ma abbastanza per capire che era successo qualcosa. Poi, però, solo silenzio sulle frequenze delle volantie dei carabinieri. I numeri delle centrali operative squillavano a vuoto. Dunque, in base alla nostra esperienza, era accaduto qualcosa di “grosso”.

Omicidi di mafia e cadaveri eccellenti, picciotti o politici potenti, magistrati e poliziotti: da tre anni la città era un mattatoio. Nulla di strano che anche quella mattina ci fosse stato un delitto “importante”.

Il direttore resta sulla soglia e guarda dritto verso l’angolo della “nera”. “Mi ha chiamato il questore – sibila verso Attilio Bolzoni e me – dice che hanno ucciso Pio La Torre”. Dodici parole che hanno l’effetto di cristallizzare l’aria. Il frastuono delle macchine per scrivere si spegne in un attimo. Tutti hanno sentito, il gelo piomba tra le scrivanie.

Trent’anni dopo, il ricordo di quella mattina mi fa stare ancora male. Era stato come ricevere dieci cazzotti nello stomaco senza poter reagire. A cavallo tra l’81 e l’82 avevo visto alcune volte Pio La Torre alla
federazione del Pci in corso Calatafimi. Appena tornato in Sicilia come segretario regionale, La Torre aveva voluto incontrare i “compagni” de L’Ora. E conoscere soprattutto i più giovani, i cronisti che erano impegnati a raccontare la vita della città “in un importante momento di trasformazione”, aveva detto in una delle riunioni. “Come diventerà questo Paese dipende molto da voi – ci aveva detto – sia come giovani che come giornalisti”.

Nei suoi discorsi la battaglia antimafia anzitutto, che era nel Dna de L’Ora, e l’impegno per la pace. La scelta del grande movimento popolare contro la base missilistica di Comiso, il milione di persone portate nell’ex aeroporto militare per bloccare l’arrivo dei Cruise della Nato. “Fate il vostro lavoro con impegno… eticae professionalità, non c’è bisogno d’altro”, aveva detto l’ultima volta, nemmeno un mese prima di essere ammazzato.

La stretta di mano di La Torre era contadina: forte e sicura. Così lo sguardo dei suoi occhi scuri che diceva: ho fiducia in voi.

E di sentire calore e appoggio ne aveva bisogno. A Palermo il suo ritorno, sponsorizzato nel Pci in particolare da Giorgio Napolitano, aveva suscitato più allarme che consenso. La Torre, assieme al dc Virginio Rognoni, aveva appena presentato la legge che creava il reato di associazione mafiosa e che soprattutto portava alla confisca dei beni dei clan. Colpire i “piccioli” era una novità intollerabile per le cosche che in quegli anni, fra traffico di droga e appalti pubblici, stavano accumulando ricchezza. La guerra di mafia iniziata l’anno prima, con gli omicidi di Stefano Bontade e Totuccio Inzerillo, aveva sancito il nuovo dominio dei Corleonesi in Cosa nostra. La Torre era convinto che Vito Ciancimino fosse il collegamento tra politica e mafia. Don Vito, si sarebbe scoperto due anni dopo, quando era stato arrestato dopo le rivelazioni di Buscetta, era anche di più: un “uomo d’onore” dei Corleonesi di Riina e Provenzano.

Insomma, il ritorno di La Torre era una minaccia che poteva essere eliminata solo in un modo. Uccidere un politico non era più un tabù. Cosa nostra aveva alzato il tiro. Negli ultimi tre anni erano caduti magistrati, poliziotti, carabinieri, politici, giornalisti. La reazione dello Stato era stata modesta. Così Riina e Provenzano vanno avanti. Da loro parte l’ordine di eliminare anche Pio La Torre. E un commando di cinque uomini porta a segno l’azione, nonostante dalla settimana prima La Torre, che ha appena ottenuto la nomina del generale Dalla Chiesaa prefetto di Palermo, vada in giro armato. Il suo autista e amico Rosario Di Salvo esplode, con la Smith & Wesson, cinque pallottole che però finiscono contro il muro, mentre i killer riescono a fuggire.

Due giorni dopo, piazza Politeama è colma di bandiere rosse come non lo è mai stata e come non lo sarà mai più. È un Primo Maggio di pugni chiusi e lacrime.

Il segretario del Pci, Enrico Berlinguer, parla. Accanto a lui c’è il presidente della Repubblica Sandro Pertini, tra gli applausi e il pianto dei molti che ricordano il comunista tutto d’un pezzo del carcere e delle lotte contadine. Le battaglie di Pio continueranno, annuncia Berlinguer. Ma chi poteva prendere la guida di un partito sotto shock, sotto minaccia, sotto tiro di vecchi e nuovi avversari, di nemici che sparano e che dispiegano clientela, corruzione e terrore? Serve un segnale forte, e tanti sperano che sia proprio il “compagno Enrico” a venire in Sicilia per guidare la nuova campagna d’Italia contro l’attacco della mafia.

Non sarà così. Il posto di Pio La Torre sarà preso dal vice segretario regionale, Luigi Colajanni, brillante intellettuale, uomo per bene ma non di lotta, abituato più ai salotti che alla trincea. Una successione quasi burocratica in un momento tragico. Così il Pci avvia il suo declino in Sicilia, la guida del grande movimento antimafia sbanda, e soprattutto non c’è vero segnale di forza. Cosa nostra continuerà la sua escalation di terrore, uccidendo Dalla Chiesa e Chinnici. Le rivelazioni di Buscetta prima e il maxiprocesso dopo sembrano colpire finalmente al cuore l’impero mafioso, ma poi arrivano l’omicidio di Salvo Lima e le stragi del ’92 contro Falcone e Borsellino. D’improvviso si torna a dieci anni prima e si capisce che la morte di La Torre è stata uno snodo fondamentale nel bloccare il cambiamento della Sicilia. E anche dell’Italia.

da repubblica.it